Danilo Maestosi
A proposito di "Michelangelo e i pensatori"

L’arte del dubbio

Il nuovo saggio di Nicola Fano mescola riferimenti all'arte, alla letteratura, al teatro e al cinema per analizzare la forza del dubbio. Tanto più importante in questo tempo di certezze...

Fascinoso e spaesante il viaggio nel quale ci sospinge e ci guida Nicola Fano nel suo nuovo saggio, Michelangelo e i pensatori. Edizioni Elliot, 136 pagine, 16,50 euro.

Terza tappa di un itinerario partito da Caravaggio, continuato con le oscillazioni di Edipo e inframezzato da una deviazione per interrogare tra il vero e il falso il mistero della bellezza di Cleopatra. Un andirivieni ancora più denso e concitato stavolta tra le pagine, le icone e le ribalte della storia della cultura ad inseguire come una cometa il miraggio sfuggente e multiforme delle domande che si affollano nella mente dell’autore fino a saldarsi in una unica convergente narrazione: Apologia del dubbio, la battezza il sottotitolo del libro.

Prosa che scivola via come la musica di un pifferaio magico e ci trascina dietro quelle note – può essere una colonna sonora di Nino Rota o una canzone che sigilla il divorzio dei Beatles – oltre il sipario del puro incantamento con nuovi punti di vista e un soffio di speranza in più.

Nella testa, nella pancia e nel cuore. Ma soprattutto nello sguardo, perché di sguardi in cerca di parole per dirsi è costruito il racconto. Un occhio all’indietro per radunare visioni e specchi di riflessione; un occhio al presente di polarizzazioni binarie, incoronazioni sommarie e cattivi maestri che agitano la bandiera della paura ma non concedono spazio al dubbio; un occhio al futuro per dirci che se si resta aperti allo stupore della vita e alla condivisione magari si può invertire rotta.

Il dubbio che suggerisce o invoca l’attesa come stazione di posta della riflessione non è tempo perso se porta più consapevolezza alla decisione. Perché anche il dubbio è una maschera, e bisogna sempre scoprire che cosa c’è dietro, osservare la folla dei dubbiosi e separare i buoni e i cattivi cultori dell’incertezza.

Gli uni e gli altri Nicola Fano ce li avvicina come compagni di viaggio, interpreti di una trama che non perde mai l’impronta di una messinscena. La lettura come uno spettacolo in presa diretta, che si prolunga nei commenti all’uscita: ogni capitolo come un sipario che si solleva, nuovi riflettori che si accendono, scenografie che cambiano per ambientare i salti in avanti e indietro nella storia della creatività e dell’umanità. È la caratteristica, il sapore più peculiare dello stile pacato e colloquiale dell’autore, che col teatro si è misurato per tutta la vita, come critico e insegnante, a volte anche come regista. E da uomo di teatro ha cominciato a rileggere, interpretare e miscelare i copioni di altre discipline: mitologia, filosofia, psicoanalisi, cinema, arti visive.

Due regole di postura, mutuate dal teatro, dominano l’effetto di piacere e scoperta – o riscoperta – che le descrizioni delle opere d’arte trovate in questo saggio hanno generato. Almeno in me che dopo aver praticato per anni il ruolo di giornalista e cronista d’arte ho convogliato nella pittura il mio bisogno di dire. Ma avendo presentato o assistito alle presentazioni di quest’ultimo ciclo di libri di Nicola Fano ho toccato con mano che un messaggio analogo ha presa su molti altri.

La prima regola è il qui e ora a cui ogni spettacolo dal vivo ti inchioda. Ogni volta, ogni replica è un’esperienza diversa. La seconda regola è che lo spettatore ha un ruolo essenziale, lo spettacolo prende vita da suo sguardo e dal suo orecchio e in quella vita si arricchisce e prolunga. Succede anche a un quadro. Esiste solo quando qualcuno lo osserva, magari decide di abitarlo ed entrarci dentro, starci a parlare. Il massimo è acquistarlo per metterselo in casa: un per sempre che forse non durerà ma è un impegno d’amore che sfiora l’assoluto.

Raro che gli esperti che regolano il flusso del sistema dell’arte se ne ricordino o ne tengano conto. Per quasi tutti la prima urgenza è catalogare, imprigionare in uno schema, quello che stanno vedendo. Nicola Fano, in genere, non lo fa. Permette a un quadro di recitare la sua parte, mentre lui si siede in poltrona a guardarlo e ascoltarlo per il tempo che serve, annotando e incrociando emozioni e pensieri. Somiglianze e agnizioni. Un arricchimento dell’anima che ha una valenza contagiosa.

Da incorniciare, vien davvero la voglia di appenderli al muro, i racconti con dedica alle tele scovate e citate ad esempio delle ricorrenti variabili cifrate del dubbio che il tempo in cui si snoda la biografia dell’artista partorisce, divora, riadatta. Nell’imbarazzo della scelta ne ricordo qui con gratitudine uno che rende omaggio a un maestro che ha rivoluzionato l’arte di figura del secondo Novecento, Francis Bacon (1909-1992).

Ruota attorno ad un’opera che mi era sfuggita e a un tema, Edipo e la sfinge, che pure io stesso ho affrontato nei miei esordi di pittore. «Bacon – scrive Nicola Fano – affoga il suo Edipo nell’instabilità interiore del Novecento». Lo dipinge come «un campione sportivo in canottiera bianca… che alza su uno sgabello un piede ferito». Una posa che ricorda quella di un «soldato della Prima guerra mondiale» in infermeria. Ma non ha movenze da soldato. Piuttosto ci appare nei tratti di «un giocatore forte ma votato alla sconfitta». Un «Edipo che si dà per perso, pensa alle ferite subite non alle sfide da vincere. È la condizione dell’uomo dopo l’Olocausto… uomini costretti a interrogare il caso per trovare la ragione dell’orrore. Il loro dubbio sembra assegnato all’impossibilità di capire». «Il dubbio ormai basta a se stesso»: è la conclusione, che lo inscrive nella schiera dei dubbiosi da non imitare anche se li sentiamo un po’ anche parte di noi, perché non hanno retto alla sfida dell’attesa, uno strumento da impugnare non per chiudere le porte alla rassegnazione ma per attrezzarsi a fare la scelta giusta: quella resistere e rimontare l’onda cavalcando lo stupore del vivere, l’oasi di dolore e sorprese che il nostro transito sulla terra ci consegna a risarcire la sensazione d’insignificanza che ci opprime.

È il teorema che apre e chiude questo saggio e trova dimostrazione in tutte le 10 sezioni in cui si sviluppa. Ognuna governata da una domanda che sembra la stessa ma è sorretta da sfumature diverse che non hanno nulla della matematica da banchi di scuola, ma sembrano – involontariamente? – sposare l’entropia di infinite possibilità della fisica quantistica. Una vertigine di disordine riscattata da un congegno di ritorno all’ordine che Nicola Fano cavalca da bravo insegnante ricorrendo a una tecnica rubata al cinema che per primo l’ha battezzata: il fermo immagine. Quanto di più simile a un punto interrogativo, se ci pensate.

Per questo nei sui testi il rimando alle immagini è tanto importante. Da quel Michelangelo, un omaggio funebre a Lorenzo, il più scapestrato dei Medici ritratto come un improbabile pensatore, al Botticelli preso in prestito per evocare i dilemmi di Paride arbitro di bellezza nella contesa di tre dee, alle tele materiche di Burri, via via fino ad arrivare all’Edipo di Bacon (nella foto accanto) che specchia la sua rozza deformità nel corpo vincente da giovanetto spavaldo di Ingres. Peccato, vien da rimpiangere che a quelle pagine manchino le riproduzioni. Ma forse è meglio così. Il libro non si trasforma in un costoso, elitario catalogo. E la consultazione su Internet è alla portata di tutti. L’importante è far scattare la fiamma della curiosità. Un intervallo di avidità che dischiude un passaggio prezioso di responsabilità.

Ecco un dubbio da collezionare, perché ci porta avanti, ci spinge ad attraversare la strada del nostro tempo e delle nostre verità personali. Proprio come l’Abbey road dei Beatles, la fine di un sogno che partorisce altri sogni. Un altro delizioso fermo immagine in una foto da copertina che si fa canzonetta e rispolvera un refrain, Come togheter, che diventa una bussola per attraversare senza snobismi la storia e cavarne risorse anche oggi.

E poi, passando a un’altra similitudine di complemento, anche questa presa in prestito al cinema, un altro colpo d’ala di scrittura che mi ha conquistato in questo saggio: lo zoom. La folla di personaggi che Nicola Fano convoca e ci affianca come compagni di viaggio, saluta in coro in un girotondo alla Fellini la propria uscita di scena, buoni e cattivi, acuti e insulsi dubitatori a braccetto.

Ma l’applauso se lo sono già meritato, insieme al regista e coreografo, nel loro modo di occupare il palco. Con le battute, ma soprattutto con le espressioni, i vezzi di carattere, le smorfie vere o simulate da guitti che la “macchina da presa” narrativa di Nicola Fano porta e isola in primo piano. Per farci guardare in faccia le tante facce del dubbio. Brevi o lunghe che siano le battute in copione, figli dell’invenzione o della storia i personaggi, ogni volto ha il suo tocco di zoom che lo scolpisce in memoria o genera la voglia di continuare a interrogarlo. Cambia solo la gerarchia di attenzione e riconoscenza in più che inevitabilmente l’autore ha riservato al suo stivaggio di modelli nel cuore. Proclamando senza imbarazzo i suoi amori e le sue preferenze. Quasi un gioco.

Una classifica, una gara di empatia, nella quale lo Zeno di Svevo, allenato da Freud, sorpassa gli amanti indecisi di Pavese, ma sembra arrancare all’inseguimento dell’Aureliano Buendia di Garcia Marquez. Amleto pianta in asso con i suoi scatti le perfidie arroganti di Iago, le oscillazioni ottuse di Coriolano, le credulità. le debolezze, le ambizioni di Macbeth, che pure per qualche tratto è sembrato affiancarlo. Gli sbalzi da una materia all’altra di Burri sorpassano le svolte poetiche verso l’astrazione di Afro, che pure è un campione di velocità del pennello.

Nessuno però, quando si attraversa il mondo del circo e dei clown, che possa tener testa agli sberleffi di Samuel Beckett e di quel fuoriclasse dell’attesa che è il suo Godot, il senso e il non senso della vita in un arrivo annunciato che nessuno vede arrivare eppure è già lì nelle risate che strappano i suoi amici clown. Troppo facile far trionfare in questa maratona dell’assurdo un fantasma?

E invece no. Il genio sfottente di Beckett, reinterpretato da Nicola Fano nelle lezioni ai suoi allievi e riproposto con lo stesso rigore didattico a noi lettori, ha dato un corpo e un volto, una maschera d’agnizione anche a Godot e agli altri eroi dell’autore irlandese che ne hanno continuato le imprese. È quello di Buster Keaton, stralunato clown del cinema muto messo in disparte in vecchiaia da Hollywood, che lo scrittore nel 1964 ingaggia come protagonista di un cortometraggio di cui ha tracciato il copione messo in mano a un qualificato specialista di set. Un titolo da tautologia che sembra una ricevuta di consegna a una tecnica e a un pubblico da grande schermo: Film. Venti minuti e passa di sequenze che a Nicola e a me sembrano indimenticabili, anche se ormai continuano a girare solo in un circuito di appassionati cinefili, una versione integrale salvata da Internet sulla piattaforma Youtube dove potete agevolmente recuperarla. Non mancate di farlo.

Mai ho visto rappresentare con tanta chiarezza il dilemma del chi siamo che assilla o attende al varco ognuno di noi. Film è la storia di un uomo che fugge, terrorizzato dallo sguardo degli altri che gli toglie certezze. Un omino oscillante che continua a voltarci le spalle, anche a chi riconosce nel cappellino che indossa, nell’andatura, negli abiti fuori misura il marchio inconfondibile di Buster Keaton. Scansa i passanti e si rifugia in casa, ma anche lì non trova pace. A minacciarlo c’è la presenza di un cane, di un gatto, di un pesce rosso, di un pappagallo, di una finestra con la tenda stracciata, di uno specchio. Fantasmi che esorcizza espellendo gli animali che immancabilmente si rinfilano dentro, o coprendo ogni fonte che gli presenta la sua immagine. Una foga impacciata che alla fine raggiunge comunque lo scopo.

Qual è? La libertà di guardare sé stesso, nella sua solitudine senza il filtro di altri. Eccolo liberare lo specchio. Scoprire la sua faccia. Ci appare un Buster Keaton ingrigito, meno capelli più rughe. Che ci guarda, si guarda con un unico occhio dilatato dalla paura. L’altro, cieco, è coperto da una benda. Godot che ha raggiunto sé stesso nell’attimo del suo declino. A teatro l’attesa, affidata ai suoi amici clowns, generava risate, speranze, investimento nello stupore della voglia di vivere.

In questa versione cinematografica allo zoom c’è solo una verità, un traguardo finale da varcare: la morte. Una profezia da Cassandra che Beckett anticipa a noi superstiti del Novecento in pensione che ancora occupiamo le platee del Terzo Millennio, dove la morte è stata messa al bando come un peccato, camuffata e sovrastata da altre paure in un delirio di egolatrie senza dubbi che generano merci e denaro.

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