Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Il mondo di Andrea

Una coppia in crisi, un epilogo inatteso e un bambino che resta solo: sono gli ingredienti del nuovo, sorprendente film di Antonio Capuano. Da vedere fino in fondo

È un film che non ti aspetti L’isola di Andrea, quattordicesima pellicola presentata fuori concorso a Venezia dal regista, sceneggiatore, scenografo e drammaturgo napoletano Antonio Capuano, ottantacinque anni compiuti, conosciuto e apprezzato ma più noto al grande pubblico per l’omaggio che gli tributò Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio e per la battuta attribuitagli e diventata virale “non ti disunire”. Un omaggio inevitabile visto che Sorrentino lo riconosce come maestro, colui che lo convinse a fare cinema.

Perché dico che L’isola di Andrea è un film sorprendente? Perché per un’ora e mezza lo spettatore non capisce dove il regista voglia andare a parare raccontando una storia di ordinaria (e anche un po’ noiosa) separazione tra coniugi – con bambino, l’Andrea del titolo, ma la spiegazione del titolo stesso e cosa c’entri l’isola arriva solo nella scena finale – un lui e una lei assolutamente ordinari (e l’avverbio non è casuale, come spiegherò tra poco).

La sceneggiatura dello stesso Capuano (che dedica la pellicola all’amatissima moglie olandese Willy) compone la storia di una separazione tra coniugi attingendo elementi “da tante storie vere”, come si legge nei titoli di testa. E che siano reali lo si capisce non appena la narrazione prende forma e si delineano le tappe della procedura giudiziale decisa da Marta e Guido per stabilire le regole della loro separazione, a cominciare dall’affidamento del piccolo Andrea di otto anni con cui entrambi vorrebbero passare più tempo possibile: i colloqui scandiscono così l’iter giudiziario degli incontri che avvengono con la giudice, la psicologa e le due consulenti di parte.

Con una regia scarna al limite del documentario che non concede nulla alla drammatizzazione e quasi evita di proposito l’empatia con lo spettatore, fino a recitare dialoghi che sembrano riprodurre verbali di polizia, Capuano costruisce i capitoli della fine di un amore sempre più dolorosa e lacerante, la guerra psicologica tra due persone che si sono amate e sono disposte a tutto pur di boicottare il partner e aggiudicarsi il figlio, una guerra sottile di nervi che niente c’entra con la spettacolarizzazione de La guerra dei Roses.

Marta fa l’attrice, non nasconde di aver avuto altre storie, sfodera una aggressività piena di rancore per ciò che quel matrimonio non le ha dato, vuole riprendersi la sua vita ovviamente con suo figlio. Guido sembra vivere al di fuori della realtà, non è chiaro che mestiere faccia, ride spesso, talvolta balbetta, ripete ogni tre parole “assolutamente”, un uomo mai cresciuto, figlio unico di una madre iperprotettiva. Entrambi manifestano lo stesso disagio davanti al magistrato, sembrano scusarsi con lei per la situazione in cui si trovano, per il malessere che li sta rodendo e che coinvolge il figlio conteso. Lo spettatore li segue nella quotidianità di una storia che pare un legal drama e si chiede cosa succederà, chi vincerà il braccio di ferro per l’affidamento di Andrea.

Prima di andare oltre avviso chi legge: adesso rivelo l’inatteso colpo di scena che arriva alla fine, perché senza quel finale il film secondo me perde il suo significato dirompente e straordinario. Quindi se non volete saperlo fermatevi qui.

Ad un certo punto, a circa 20 minuti dalla fine, lo spettatore rivede la stessa scena di apertura del film: esterno notte, Guido è nell’atrio del condominio dove abita Marta, prende l’ascensore e sale. Entra nell’appartamento buio dove Marta è in attesa di un ospite, lei è in abito da sera, sta danzando da sola a piedi nudi sulle note di un valzer di Ravel. Ma questo l’avevamo già visto, è la scena iniziale del film, quando lei sbatte fuori casa il marito. Solo che stavolta Guido non se ne va, Guido estrae una pistola e spara. Il colpo non lo sentiamo perché una nota continua e assordante penetra nelle orecchie degli spettatori. E allora improvvisamente è chiaro: tutta la pellicola è un flashback.

Denunciare un femminicidio scarnificandolo di tutti gli aspetti drammatici e “straordinari”, riportandolo per sottrazione e verità dentro la quotidianità di una “normale” separazione, è un’operazione di coraggio così raro che solo un ottuagenario spericolato come Capuano poteva portare sullo schermo, lo stesso coraggio che ha il suo coetaneo Marco Bellocchio di cui vedremo presto la storia di Enzo Tortora.

Grande merito della riuscita del film va ai due protagonisti: Vinicio Marchioni è il balbettante e spaesato Guido, Marta è la sempre bravissima Teresa Saponangelo, che con Capuano ha già recitato in altre tre pellicole, un sodalizio che dura dal 1996. E poi c’è il figlio, il piccolo Andrea Migliucci per la prima volta sullo schermo. Capuano riesce a fargli recitare la parte del bambino irrequieto e incontrollabile che vuole scappare da quel teatro assurdo di colloqui e di litigi degli adulti, come solo i grandissimi registi sanno fare, penso a Vittorio De Sica. E la scena finale in cui Andrea canta L’isola che non c’è di Edoardo Bennato mentre l’inquadratura si stringe sui suoi occhi neri, riempie di tenerezza lo spettatore e finalmente ci spiega il titolo del film.

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