Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

La Duse piangente

Malgrado la presenza di tanti bravi attori (a cominciare da Valeria Bruni Tedeschi), "Duse” di Pietro Marcello è un film non riuscito. Troppa enfasi e, di conseguenza, poca credibilità

Nutrivo molte aspettative, troppe. Perché amo Valeria Bruni Tedeschi. E amo Eleonora Duse, soprattutto dopo averla vista rivivere nell’ottimo Duse, The Greatest, il docu-film del 2024 esordio alla regia di Sonia Bergamasco. E allora che cosa non mi ha convinta nel film di Pietro Marcello Duse, protagonista assoluta Bruni Tedeschi, passato a Venezia e apprezzato da pubblico e critica, senza peraltro ottenere neanche un premio?

Per spiegare perché ritengo Duse un film non riuscito nonostante la straordinaria prova d’attrice di Bruni Tedeschi, prendo Duse, The Greatest come pietra di paragone, proprio perché i due lungometraggi raccontano lo stesso personaggio in modo completamente diverso.

Tanto la pellicola di Bergamasco era immediata, diretta, “fisica” nel restituirci Duse oltre il mito e in tutta la sua umanità fragile, quanto il film di Marcello mi è sembrato artificioso, cerebrale, enfatico e non empatico. L’intenzione del regista è dichiarata fin dalle prime scene: Marcello racconta gli ultimi anni di vita della Divina all’indomani della Grande Guerra, quando Duse decise di tornare a recitare nonostante l’opposizione della figlia Enrichetta e degli amici preoccupati per la sua salute precaria, e mette in relazione le sofferenze dell’attrice lontana dal palcoscenico da oltre un decennio e della donna ormai anziana, sola e malata, con le sofferenze di un paese ridotto a un cumulo di macerie materiali e morali, l’Italia che si sottometterà a Mussolini. Il nesso è rappresentato visivamente dalla scena reiterata del treno che alla fine del 1921 trasportò da Aquileia a Roma le spoglie del Milite Ignoto, onorato come una preziosa reliquia, l’incarnazione stessa della Patria. A quelle immagini si sovrappongono i viaggi in treno dell’attrice nella tournée che la riportò sul palcoscenico con La donna del mare di Ibsen.

Se il cuore della sceneggiatura appare chiaro, il regista tuttavia non resiste alla tentazione del melodramma scegliendo un registro che finisce per alzare i toni in ogni scena. Il risultato è che i personaggi rischiano spesso di apparire le caricature di se stessi, da Gabriele D’Annunzio a Ermete Zacconi a Memo Benassi fino all’assistente Désirée in conflitto permanente con la figlia: tutti recitano sopra le righe, spesso gridano e si arrabbiano, la stessa Bruni Tedeschi è per due ore al centro della scena sempre con le lacrime agli occhi. Né allo spettatore è concesso di fare un passo indietro, visto che la tecnica di ripresa impone troppo spesso primi piani strettissimi.

E pensare che il cast di Duse vede attori di grandissima esperienza capaci di ben altre sfumature e chiaroscuri. Accanto a Bruni Tedeschi c’è Fausto Russo Alesi nei panni di un D’Annunzio invecchiato e impenitente che sembra ancora inseguire l’antico amore; il drammaturgo nonché attore e regista Mimmo Borrelli impersona Ermete Zacconi, mentre all’attore napoletano Vincenzo Nemolato è affidato Memo Benassi. Ma se la bravura del cast è indiscutibile, ripeto, molte scelte del regista (compresa la colonna sonora) a mio avviso lo sono.

Avrebbe potuto essere tutto un altro film se la regia avesse scelto un registro meno enfatico, più intimo e vero, se il regista stesso avesse fatto un passo indietro affidandosi all’intuito e all’esperienza dei suoi attori. Un esempio? Dopo circa mezz’ora dall’inizio arriva la scena delle prove de La donna del mare che segnò il ritorno sul palcoscenico della Divina. Zacconi nel ruolo di regista aggredisce una giovane esordiente che non dice le battute con l’enfasi che lui esige. Duse esce dall’ombra delle quinte, si avvicina alla ragazza e la costringe, una domanda dopo l’altra, non a recitare come chiede Zacconi, ma a incarnare davvero il personaggio di Ilda. È un momento di verità assoluta in cui neanche Bruni Tedeschi recita, in quella scena lei “è” Eleonora Duse. Con i suoi occhi azzurri pieni di lacrime e i lunghi capelli grigi sciolti sulla schiena. Quella donna che si concesse al cinema una sola volta nel film Cenere tratto dal libro di Grazia Deledda, recitando senza trucco, senza parrucca, esattamente così com’era.

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