Stefano Zangrando
A proposito di "Senza riparo"

Egoismi quotidiani

Guido Mazzoni riunisce sei saggi che analizzano la crisi della democrazia occidentale nel corso degli ultimi decenni. Da Berlusconi a Trump

Nel suo recente Senza riparo (Laterza, 160 pagine, 17 Euro) Guido Mazzoni sfida quella che Simmel chiamava «tragedia della cultura», ovvero l’impossibilità di inquadrare complessivamente la realtà in un’epoca di crescenti specialismi ed espansione dei saperi, e raccoglie «sei tentativi di leggere il presente» scritti e rielaborati nell’arco di quasi un decennio. Fedele in tal modo alla vocazione originaria della forma saggistica, lo studioso e poeta fiorentino si colloca in una linea di riflessione intellettuale di matrice illuminista che già nel precedente I destini generali (2015) si richiamava a Fortini, in parte a Pasolini, di certo qui a Calvino: è di quest’ultimo infatti l’idea, a inizio Anni Sessanta, che all’epoca l’essere umano occidentale, ed europeo in particolare, assistesse agli eventi del mondo, a dispetto della guerra fredda, da una posizione e con una sensazione di «riparo», ossia di relativa sicurezza economica e sociale. È ciò che oggi è venuto a mancare, e che Mazzoni esplora attraverso una disamina di fenomeni storico-politici esemplari che hanno segnato gli ultimi decenni, riuscendo in una sintesi di ammirevoli ordine e nitore. Ampio è il repertorio teorico di cui si avvale per puntellare la propria riflessione, acuto e a tratti brillante il modo in cui quest’ultima si addensa via via nei propri capisaldi.

Bipartito in quattro «scene di storia» e due «punti di fuga», il volume si apre con un’introduzione che rende conto dello sfondo: dopo il 1989, all’illusione della «fine della storia» e (soprattutto in Occidente) dello «sciopero degli eventi», dove vigeva una thatcheriana “mancanza di alternative” al neoliberismo, ha fatto seguito, a partire dagli Anni Duemila, una condizione di «crisi» che dal 2008 in poi, con la crisi finanziaria e l’avvento degli smartphone e dei social media, ha inaugurato un nuovo quadro socio-economico senza più “ripari”. Nell’«Occidente collettivo» – espressione che Mazzoni mutua senza esitazioni da Putin – è allora avvenuta una nuova mutazione antropologica: la maggioranza silenziosa di un tempo si è trasformata in «classi parlanti» fra le quali, in un presente sempre più assoluto, si sono fatte largo guerre culturali e nuovi populismi. È l’esito ambiguo dell’emancipazione liberale che, mentre promuoveva individualismo e autodeterminazione, ha portato avanti il progetto redistributivo socialdemocratico in forma di elargizione di diritti e lotta alle ingiustizie basate sulle diversità, ma lo ha fatto obliterando la discriminazione di classe. Anche per questo, e per l’impoverimento patito da buona parte del ceto medio occidentale, si è sviluppata un’opinione pubblica di destra che spinge verso forme illiberali di democrazia. Le quali, piaccia o no, si presentano oggi in effetti come la sola alternativa reale al «There is no real alternative». L’invasione dell’Ucraina e la seconda elezione di Trump, in questa luce, hanno segnato il definitivo «risveglio» dell’Europa a una “Storia” rimessasi in moto.

Nel riprendere e approfondire gli aspetti più generali di questo processo, Mazzoni affronta quattro forme della crisi: quella economica e demografica anzitutto, che ha visto incrinarsi le bolle di benessere che nei decenni precedenti avevano sorretto il ceto medio occidentale, con ripercussioni sulle aspettative esistenziali come sulla natalità, e la nascita di un risentimento che nasce dalla sensazione «di aver perso qualcosa». Poi la crisi della decisione politica, dove al capitalismo e al peso di burocrazia e governance è attribuita la deriva populista del voto da parte di quella fetta di classe media che la globalizzazione ha penalizzato. Ma già in questi primi due casi Mazzoni è bravo a scongiurare certi automatismi del common sense progressista, osservando come il neoliberismo non abbia avuto unicamente una natura predatoria e foriera di disuguaglianze, bensì fu anche il tentativo di reagire al venir meno delle condizioni pur ambivalenti che avevano permesso la crescita economica dell’Occidente nei decenni precedenti; del resto la sua estensione globale, mentre impoveriva molti di noi, promuoveva un benessere senza precedenti in ampie fasce del ceto medio nascente in altre regioni del mondo. Quanto alla politica, mentre gli avvantaggiati dalla globalizzazione sono rimasti legati alla forma rappresentativa della democrazia, che ha in sé anche un principio elitario e uno «monarchico» (l’esecutivo), è stato proprio il populismo a favorire forme di democrazia diretta, seppur inclini a derive autoritarie: si può forse negarle il valore di un’alternativa, per quanto indesiderabile, a un sistema che si voleva ormai immutabile?

Con analogo senso della distinzione, Mazzoni tratta la crisi dei legami sociali rilevando il carattere «super-egotico» del politicamente corretto, osservando poi come non ci sia alcun nesso diretto fra libertà individuale e principio democratico e distinguendo, se mai ce ne fosse bisogno, i tratti militari e collettivizzanti del fascismo dal populismo odierno. Associa infatti quest’ultimo a un «individualismo anarcoide di destra» che, oltre a simpatizzare per un autoritarismo «cesarista» o «bonapartista», ha un’impronta identitaria in cui la dicotomia «noi/loro» è suscettibile di sempre nuovi aggiustamenti. L’esito è una tribalizzazione dei legami sociali non troppo diversa da quella generata dalle politiche dell’identità sul versante liberale. Certo, il ceto medio svantaggiato ha conosciuto una «decivilizzazione», ma le sue forme sono pur sempre «ingentilite» rispetto all’epoca fascista. Nondimeno sarà bene ricordarsi che la civiltà «è un risultato» mai definitivo, e che comporta il freudiano «disagio» derivante dall’introiezione di regole e responsabilità condivise. È qui che, di fronte all’odierna e nuova «ribellione delle masse» in cui torna a manifestarsi «l’arcaico», Mazzoni ricorda con Isaiah Berlin che «non è affatto scontato che gli esseri umani debbano servirsi della propria intelligenza» e vogliano uscire da un kantiano stato di minorità; egli pone così in scacco lo stesso illuminismo politico di cui in qualche modo si sente erede, ma che induce gli intellettuali all’autoinganno. A prevalere oggi, infatti, è la «libertà negativa» che segna la fine dei valori super-egotici e, se da un lato porta a maggiori rivendicazioni e diritti, dall’altro genera anche pigrizia e regressione. È insomma una libertà legata al desiderio e che «non ha necessariamente a che fare con la ragione o la democrazia».

Forti di questa esaustiva premessa generale, i capitoli successivi entrano nel merito di singoli fenomeni in cui il processo descritto trova le sue declinazioni concrete. Si ha così a che fare con Trump, «il vero cuore di tenebra dell’Occidente collettivo», e con Silvio Berlusconi, cui con vent’anni d’anticipo faceva capo «l’avanguardia della nuova mutazione» e che perciò è ricordato come il creatore della «grammatica» del populismo contemporaneo. Di entrambi Mazzoni è bravo, ben distinguendo i diversi humus nazionali e bacini di consenso, a illuminare i tratti distintivi: l’istrionismo privo di «freni educativi», la capacità di far prevalere la credibilità estetica e morale della performance sulla verità fattuale, la compresenza di conservatorismo dei valori e individualismo anarcoide e trasgressivo, in cui l’elettore-tipo dell’uno e dell’altro non riconosce affatto una contraddizione insolubile – e la «ferita narcisistica» che questa loro incongruenza arreca invece all’intellettuale illuminista o anche solo in quello che, nella seconda parte del libro, è ritratto come il borghese liberal-progressista dedito a ciò che resta della vita «etica».

Ma prima di arrivare a trattare di questo, Mazzoni si sofferma sulla pandemia da Covid-19, la prima grande «morte di massa» in Occidente dalla Seconda guerra mondiale. È un passaggio essenziale non solo per come introduce il rapporto Servo-Signore che, mutuato da Hegel via Kojève, gli serve per spiegare il modo in cui si è tutelata la «nuda vita», ma anche per come rileva la differenza fra le «scene di storia» cui si era abituati prima e dopo il 1945 e la stranezza del fenomeno pandemico, privo di «coinvolgimento identitario» e forse anche per questo rimosso così in fretta. La congettura ultima, tuttavia, è che questa sparizione dalla memoria collettiva possa essere dovuta al risentimento sublimato «contro il dovere di salvare i vecchi». Ma insomma, se si è deciso di preservare la vita «senza qualità», è perché nell’era liberale si è dismessa pressoché del tutto la mentalità del Signore, per cui la libertà vale sopra ogni cosa, fino a meritare il sacrificio della vita, a vantaggio di quella del Servo, che si assoggetta pur di sopravvivere. Così, afferma Mazzoni, «il mondo moderno è opera dei Servi», e il solo momento in cui il Signore ha fatto capolino durante la pandemia è quando i leader populisti di destra hanno dato segno di voler prediligere l’economia e il suo salvataggio a quello delle vite umane.

Se in questi primi quattro momenti la riflessione si è concentrata sugli ultimi decenni, la seconda parte ha il merito di collocarli su uno sfondo prospettico che ne fa risalire le mutazioni di fondo al passato non solo recente. Nel trattare il rapporto fra classe media e rivoluzione, in particolare, si risale fino al 1789 per tracciare una cronologia che giunge fino al 1968, passando per il 1917, e rispetto alla quale Mazzoni constata che la rivoluzione borghese è la sola ad aver vinto. Se quella marxista non ha prevalso, è perché alla fine «il capitalismo crea un mondo nel quale molti hanno qualcosa da perdere». Se Berlusconi e Obama, a sedici anni di distanza l’uno dall’altro, decantano le stesse qualità e conquiste del sistema liberale, è perché questo ha garantito le bolle di benessere e autonomia privata, le stesse che oggi si sono estese in molte parti del globo. E a ciò si è accompagnata la sostituzione di una paleoborghesia kierkegaardianamente «etica» (e anale), guidata dai valori tradizionali e dal senso di responsabilità, da parte di una nuova borghesia la cui «vita estetica» (e orale) è dettata dall’edonismo e da una morale sessuale liberata. Oggi il portato etico, con le lacerazioni del desiderio che si porta dietro, si riscontra ancora qua e là nella middle class «per bene», ma è poca cosa in una borghesia generalmente «imborgatata» (W. Siti) e dedita a una sorta di anticonformismo di massa. Degli impulsi rivoluzionari della borghesia storica non restano che le culture wars, le quali però non costituiscono che l’«arredamento interno» di un edificio che esternamente seguita a sussistere.

Non è finita qui. Il capitolo conclusivo sul «lungo Sessantotto», ossia sul decennio in cui si dà la sua ondata completa, si riallaccia ai precedenti almeno per un’ultima Aufklärung – la parola tedesca che, oltre a significare “chiarimento”, è il corrispondente di Illuminismo. Quella che Mazzoni assume per l’Italia come «terza guerra civile» dopo il Biennio rosso e la Resistenza (che simili delimitazioni geo-crono-terminologiche restino per lo più inesplicate è tra le poche debolezze del testo, insieme con un determinismo ex post che non lascia margini all’imprevedibile) è illustrata nelle sue due anime: quella marxista, che si voleva un prolungamento delle rivoluzioni comuniste e ha finito per estinguersi, e quella edonista, interna alle società capitalistico-liberali, che ha effettivamente ridefinito costumi, relazioni e valori – e che ha quindi avuto un effetto reale e duraturo. Il punto è che è stato un effetto super partes, giacché l’edonismo berlusconiano ne è anch’esso un portato, così come è difficile smentire l’influenza della controcultura sull’odierno individualismo anarcoide di destra. È insomma difficile distinguere, per così dire, il bene dal male in un mondo in cui, secondo Mazzoni, ormai nessuno crede più davvero che ne sia possibile un altro.

Sono conclusioni decisamente disincantate, ma non tolgono all’insieme il pregio di un sensibile riordinamento conoscitivo. Mazzoni ha dato forma a un affresco complesso e di grande equilibrio, una mappa preziosa per chi intellettuale non lo è (o non lo è abbastanza) e sconta un’entropia di informazione e saperi che rende arduo orientarsi nel presente storico.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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