A proposito di “Sul filo della lama”
Wojnarowicz, il ribelle
Nel memoir di David Wojnarowicz, eclettico intellettuale americano omosessuale, c'è il ritratto dell'America di Reagan e Bush, pronta ad aprire la strada all'era Trump
La vita di un essere umano, oltre che evento biologico, può talora presentarsi come manifesto filosofico, opera d’arte, volontà di potenza, ascesi spirituale, testimonianza di una temperie storica. Tutto dipende da chi la interpreta e da come ne orchestra i passaggi; sempre che voglia farlo, e non si adatti, come facciamo quasi tutti, a lasciarsela scorrere addosso.
David Wojnarowicz, ebreo americano, omosessuale, anzi orgogliosamente queer (negli anni Cinquanta, il termine venne tradotto in italiano con “checca”; oggi ha uno spettro semantico molto più ampio e si riferisce piuttosto a una filosofia di vita), attivista per i diritti delle persone colpite dall’Aids, non ebbe esitazioni a darle forma di una perenne, indomita ribellione. Contro pregiudizi, stereotipi, ingiustizie, ipocrisie.
In breve, contro una società, gli Usa di Ronald Reagan e di George W. Bush padre, invasata del culto neoliberista improntato a un individualismo sfrenato, avido di successo economico, decisa a nascondere sotto il tappeto di casa, sino a soffocarlo, ogni comportamento bollato come deviante.
Soffocato si sentiva e soccomberà Wojnarowicz, ucciso a soli 37 anni, nel 1992, dall’Hiv. Che fece confluire la sua esperienza in un testo difficile da classificare, un memoir in bilico tra flusso di coscienza psichedelico, fredda disanima, a colpi di cifre, di una fallimentare politica sanitaria, note di diario, registrazioni trascritte, poesia.
Autore pressoché sconosciuto in Italia, Wojnarowicz fa adesso la sua apparizione con l’urticante Sul filo della lama – memorie della disintegrazione (Miraggi edizioni, traduzione di Chiara Correndo, 336 pagine, 24 Euro). Opera in cui si avverte l’influenza sperimentalista di William Burroughs, non a caso autore, oltre che del celebrato Pasto nudo, appunto di Queer.
Alle spalle un’infanzia di violenze e abusi, Wojnarowicz si trova ad affrontare gli anni in cui l’Aids imperversa, miete vittime su vittime. Lo fronteggia con la sua creatività, il suo multiforme bagaglio artistico (dalla fotografia alla musica e alla pittura), la coscienza netta della disintegrazione del suo essere e una rabbia inesausta. Lo fronteggia dalla strada, frontiera estrema, scelta già da adolescente come suo unico domicilio, outsider tra altri outsider.
L’accostamento con Arthur Rimbaud è quasi automatico, per la forza delle analogie. L’adolescente che parte alla ventura e intreccia un legame tenace e sofferto con un altro poeta, Paul Verlaine. Accostamento suggerito dall’artista stesso, che negli anni Settanta elaborò una serie fotografica, Arthur Rimbaud a New York, in cui ritrasse i suoi amici in giro per la città con indosso la maschera dell’enfant prodige della poesia francese.
Diversi i punti di contatto. Tra cui la morte precoce. Ognuno attraversò il proprio inferno. Ma Rimbaud, doppiato il capo dell’adolescenza, mutò rotta, abbandonò del tutto la poesia, si diede al commercio d’armi, e forse anche di schiavi. Wojnarowicz, in una foto emblematicamente ritratto con le labbra cucite, continuò a dimorare nel suo inferno, e portò il suo impegno alle estreme conseguenze.
Così attaccò senza riserve lo way of life americano e le sue istituzioni. Colpevoli, il governo in tandem con la chiesa, con in testa il cardinale O’ Connor, di affrontare l’epidemia a colpi di fervorini moralistici, con ossessivi quanto insulsi inviti ad astenersi dal sesso. Invece di indicare e promuovere le misure più semplici per praticare un sesso sicuro.
Spietato il ritratto che l’artista traccia degli States di quegli anni, accampati dietro «schermi morali finti» che «vengono snodati… ogni volta che decidono di inviare truppe all’estero per proteggere i loro interessi corporativistici». Sono pagine che lasciano intravvedere quando e come si sia incubato e abbia preso vita il nefasto trumpismo, il dominio pressoché assoluto delle arroganti oligarchie tecnologiche – o broligarchie, vera e propria mafia – della Silicon Valley.
Prosa tagliente, come lascia intendere il titolo. Che aggredisce il lettore dalle prime battute. «Quindi il mio retaggio è una fredda scopata in qualche letto lontano (…). Il concepimento non è che un colpo sparato al buio». Prosa in cui la parola morte ricorre quasi ad ogni pagina, come un rintocco di campana funebre.
Prosa che cambia pelle di continuo; senza schermi, diretta fino alla brutalità, ma capace poi di innalzarsi di scatto ai vertici della poesia. Sublimazione artistica che per qualche attimo gli offre un rifugio, lo sottrae ai mali del mondo, che così duramente lo hanno bersagliato, contro i quali ha spedito in prima linea la sua mente e il corpo.
Dolore, desiderio, presagi neri si intrecciano. Come nel postcriptum, dove quasi in ogni riga aleggia lo spettro di un amico suicida, alternata all’immagine del padre dell’autore, un marinaio violento che «adorava picchiare mogli e figli, ne aveva fatto proprio una scienza».
Mentre l’icastico resoconto di una tauromachia, nel suo lento svolgersi per sequenze staccate, con il contrappunto reiterato di una sorta di malinconica antifona («cercate il profumo dei fiori finché siete in tempo»), delinea l’ineluttabilità di un destino e sprigiona il fascino macabro di una danza della morte.