Daniele Luti
Elogio (atipico) della velocità

Letteratura dal treno

Caproni, Pasolini, Cassola: tre modi diversi di raccontare il mondo a partire dalle loro avventure in treno. Un catalogo di immagini e di emozioni

Lucio Lombardo Radice, a volte giustamente aggressivo verso il birignao teatrale di certi intellettuali occupati a portare in giro il loro ingombrante IO, biasimava quei letterati che ostentavano come un merito la loro abissale ignoranza anche sulle più elementari cognizioni di fisica e di matematica. Lo definiva un vezzo da imbecilli perché il sapere è uno e tant’è! Ma, se è vero che molti di loro, non tutti ovviamente, si tenevano ben lontani dalla fatica della logica, nessuno però disdegnava le scoperte scientifiche, la tecnologia, l’utilità e – perché no? – la bellezza dei mezzi di locomozione.

La bicicletta, il treno, l’automobile e l’aereo hanno sùbito preso campo anche nell’arte, nella musica e nella letteratura. Pensiamo (pur tenendo in debito conto della loro profonda diversità) a Leopardi, Carducci, Pascoli, Puccini, Guerrini, d’Annunzio, Luigi Nono. E, naturalmente, tralascio i futuristi per la banalità del riferimento anche se nutro per loro (in particolare per Ardengo Soffici) una predilezione forse anche per lo studio e il lungo amore per questa corrente del mio vulcanico professore Umberto Carpi.
Colpisce, per tornare al punto di partenza, non solo il fascino anche estetico, esercitato dalla velocità, ma pure la genialità briosa di certe costruzioni: le valvole premute con scarpe di cielo, le locomotive che hanno i caratteri di compattezza e di ossessività quando fanno loro il vampirismo erotico di Plutone e rapiscono proserpine ai Vati, le biciclette che, dlin dlin, ricordano il tempo breve della vita, i voli spericolati del mito icario, gli scatti di passione in mezzo a nuvole di polvere su strade serpoidali, la superficialità stigmatizzata di chi non sa distinguere il progresso dallo sviluppo. Insomma, nella creatività artistica non sono mai mancate attenzione e stupore, accoglienza e sarcasmo per il crescere della velocità e per i caratteri della sfida dell’uomo al tempo e allo spazio, vale a dire alla propria finitezza.

La cosa più curiosa è stata, per me, constatare l’amore per il treno che ha toccato tre autori molto diversi tra loro, per idea della vita, per sensibilità estetica e per la visione storica e politica del mondo: Giorgio Caproni, Carlo Cassola e Pier Paolo Pasolini. Il primo trasforma il viaggio in simbolo filosofico e lo “racconta” attraverso lacerti lasciati dai suoi percorsi onirici: “Il treno (che non può fermarsi né deviare quando vuole, come l’automobile) potrebbe darci il senso quasi dell’agostiniana predestinazione, in luogo del libero arbitrio. E così la funicolare con quel cavo che tira” dirà in una sua intervista. Non stupisce fra l’altro la gioiosa visione della bicicletta in rapporto a Livorno e che richiama festose immagini di giovinette (riassunte da Anna Picchi, la madre del poeta) in corsa verso il mare, il cui transito è dipinto attraverso gli occhi attenti di giovanotti sui muretti o su imbarcazioni, odorose di pece e di mare, appese alla cima e ondeggianti all’ormeggio.
Cassola e Pasolini, invece, raccontano il mezzo ferroviario in diretta. Si trovano nello scompartimento, sono indistinguibili dagli altri viaggiatori, dagli altri pendolari, potremmo dire, visto che si trovano su una linea locale, nella lentezza di un accelerato che sembra fatto a posta per far sentire il battito bradicardico di un paesaggio che sembra immerso nel silenzio solenne di un evento creativo, destinato a “essere” immodificabile all’infinito, dentro una lontananza sospesa di un attimo immutabile. E lì, in questa condizione, avviene un paradosso.

Pier Paolo Pasolini racconta ciò che vede dalla geometrica rettangolarità del finestrino come se illustrasse una galleria pittorica, una collezione di quadri monotematici, tutti organici al rispecchiamento del sublime modellato da una luce immobile e sospesa nella realtà, dalla mobilità del mezzo di locomozione: “Chi parte da Venezia, dopo un viaggio di due ore (se prende l’accelerato, magari quello del sabato sera, pieno di studenti e di operai) giunge al limite del Veneto e, per dissolvenza, entra nel Friuli. Il paesaggio non sembra mutare, ma se il viaggiatore è sottile, qualcosa annusa nell’aria. È cessata sulla Livenza la campagna dipinta da Palma il Vecchio e da Cima. Le montagne si sono scostate, a nord, e appiattite a colorare il cielo di un viola secco, con vene di ghiaioni e nero di boschi appena percettibile contro il gran velame; e il primo Friuli è tutto pianura e cielo. Poi si infittiscono le rogge, le file dei gelsi, i boschetti di sambuchi, di saggine, lungo le prodaie. I casolari si fanno meno rosei, sui cortili spazzati come per una festa, coi fienili tra le cui colonne il fieno si gonfia duro e immoto. Ma è specialmente l’odore – che fiotta dentro lo scompartimento svuotato – a essere diverso. Odore di terra romanza, di area marginale. Sulla dolcezza dell’Italia moderna c’è come il rigido, fresco, riflesso di un’Italia alpestre del sapore neolatino ancora stupendamente recente” (Friuli di Pier Paolo Pasolini, testo per un programma RADIO RAI, 1953). Sono aggettivi, sfumature, queste del poeta di Casarsa, che parlano di letture intense e consapevoli, fonti letterarie che albergano dentro la sua poetica. Non a caso, poco dopo, Pasolini ci avverte che il paesaggio friulano del Novecento, almeno fino all’inizio dell’ultima guerra, è soprattutto pascoliano, il Pascoli tipico dei poeti dialettali.

Cassola, invece, più che rispecchiare il paesaggio, i casolari, i quartieri popolari li attraversa, e li percepisce, con le corriere, con le ferrovie locali che non portano verso, ma circolarmente raccordano realtà molto vicine tra loro: il treno scorre lungo la cremagliera permettendoci di vedere donne, uomini, ragazzi còlti nel loro affaccendarsi quotidiano. Specialmente in alcuni racconti giovanili e in Ferrovia locale, la tecnica di Cassola è quella di uno sceneggiatore cinematografico, ha attenzioni, visioni, e descrive passaggi, repentini e velocissimi, da particolari infinitesimali a improvvisi allargamenti che sono propri del linguaggio filmico.

In Cassola e Pasolini, il mezzo di locomozione, il treno, ma anche la bicicletta, la corriera, del resto, servono per aprire la pagina proprio al vento travolgente della poesia, a quella particolare vibrazione che non è giustificata dall’intreccio narrativo, che non è di casa nella prosa, ma è propria della condizione emotiva che uno scrittore non può non ascoltare.
Da sempre sono personalmente attratto e ho studiato gli intramezzi poetici all’interno della narrativa del Novecento. E da sempre ho intravisto un poeta alla base di questi spunti interni alla nostra narrativa.
Non voglio essere monomaniacale, ma questa onnipresenza della vibrazione poetica, l’insopprimibilità del palpito emozionale, il commuoversi davanti al racconto muto del paesaggio non sarà “colpa”di Giovanni Pascoli?

Cassola, in Letteratura e disarmo, sostiene che Pascoli è l’unico poeta cosmico della letteratura italiana.
Pasolini, dopo l’8 settembre 1943, perse il manoscritto della sua “tesi caravaggesca” pensata con Longhi. In sostituzione passerà a una tesi più motivata sulla poesia di Pascoli seguita da Calcaterra.
Qualcosa vorrà dire?

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