La prima parte di una storia "coloniale”
A Vientiane
«Dentro una delle piccole costruzioni bianche a due piani affacciate sui campi da golf, in una specie di salotto-bar col bancone chiuso ad anello e le rastrelliere di bicchieri al centro, si assaggiavano vini europei e si fumavano sigari cubani. Fingendo di smerciare quella roba, Mr O combinava incontri d’affari...»
10Li aveva conosciuti altrove, sia l’uno che l’altro. E credeva di conoscerli ormai abbastanza bene. Però laggiù gli parevano diversi. Era il posto a renderli così, qualcosa che aveva a che fare col posto.
Il posto era Vientiane, Laos, si parla di parecchi anni fa. E’ possibile che le cose siano cambiate, nel frattempo, ma allora Vientiane era una piccola città, capitale di un paesino poco abitato, l’unico della penisola privo di sbocchi al mare. Ed era strano, per Angelo, trovarsi assieme a quei due in quella parte di mondo rinchiusi nell’albergo di una piccola città, a discutere quel genere di cose. Perché fino ad allora quei due – Mr O e Venturini – li aveva frequentati solo in grandi, vorticose città. A Kuala Lumpur aveva a che fare quasi ogni giorno con Mr O. A Bangkok, di recente, aveva di quando in quando incontrato Venturini. E una volta, in vista dell’affare cui la Compagnia mirava, aveva combinato un incontro a tre in campo neutro, a Singapore. E non erano mai stati – sia detto per inciso – incontri facili: tra quei due la corrente non passava.
“Lei non può pretendere che quel signore metta a disposizione tutta la baracca e poi si faccia da parte,” aveva detto Venturini.
“Non può nemmeno chiedere d’avere assicurata la sua parte solo perché ci ospita…” aveva detto Mr O.
“Non si fiderà più. Lei non conosce quella gente. Quanto conta per loro…”
“Li conosco eccome, molto meglio di lei. Guardi questa faccia. Più adeguata della sua, qui. Lei è e resta un westerner.”
“Vivo qui da cinquant’anni.”
“E per questo s’illude di conoscere noialtri orientali?”
“Lei non lo dice per questo. Ha altro in mente, non è a questo che mira…”
E così via. Erano a Singapore, un angolo appartato della hall del Mandarin. Avevano cominciato a litigare allora e non avevano più smesso. Impossibile tenerli assieme, impossibile separarli. Cane e gatto. Era un pasticcio.
Da più di tre ore discutevano e non avevano progredito di un passo. Due tipi così antitetici, ben più vecchi di lui entrambi. All’epoca dei fatti Mr O aveva passato i settanta e Venturini andava addirittura per gli ottanta. Malese di etnia cinese il primo, italiano trapiantato da mezzo secolo in Thailandia il secondo. Due vecchi di natura, cultura, tendenze contrapposte, in disaccordo su tutto. Il più delle volte, a prima vista, impuntature e vanità senili. Ma anche, pareva ad Angelo, pose assunte allo scopo di trarne qualche vantaggio. Quali che fossero i retropensieri e le ambizioni nascoste dell’uno e dell’altro, erano tali da trascinarli in diatribe incessanti su ogni argomento. Anche quando interessi comuni, questioni di denaro, d’opportunità… tutto, insomma, avrebbe dovuto spingerli a trovare un accordo. Questo la Compagnia chiedeva loro, questo Angelo s’aspettava.
Ritirarono le chiavi alla reception e si diedero appuntamento a cena nella hall. Mr O salì subito in camera a riposare. Venturini volle bere qualcosa, prima, e chiese ad Angelo di fargli compagnia. Sedettero al banco del bar. Immaginò che avesse bisogno di un goccio, dopo lo scontro, che volesse sfogarsi. L’altro affrontò il tema con durezza:
“Non lo sopporto più. Liberatevene.”
“Lo sa che non possiamo,” rispose Angelo. “Gliel’ho spiegato.”
“Questo è affar vostro. Io così non posso lavorare. O me o lui.”
“Senta…” borbottò Angelo. Le parole che provò a mettere insieme per ammansirlo suonarono fin dalla prima sillaba false e vuote. Ma le pronunciò ugualmente tutte quante, fino all’ultima. L’altro tagliò corto:
“Sono tutte stronzate.”
Vuotò il bicchiere, scese dallo sgabello e s’avviò all’uscita, piantandolo lì. Sarebbe tornato, per cena? Chissà. Stronzate, aveva detto bene. E intanto l’affare rischiava di andarsene in malora.
L’affare in questione era, manco a dirlo, una diga. Nam Ngum 3, Laos centrale. Quel piccolo paese con la sua piccola capitale era in quegli anni un crocevia d’interessi. Interessi legati all’acqua, perlopiù, all’onnipresente movimento d’acqua che traccia ovunque l’identità dei paesi. Nella fattispecie, l’acqua era quella del basso corso del Mekong e gli interessi in gioco ruotavano attorno al potenziale che quell’enorme massa liquida possedeva. Questo era uno dei due poli della tensione. L’altro era la fame d’energia che una coppia di tigri asiatiche di seconda fila – Thailandia e Vietnam, economie emergenti e aggressive, desiderose di emulare quel che tigri asiatiche di prima fila (Corea, Singapore, Taiwan, Hong-Kong) avevano fatto prima di loro in quell’area tanto densamente abitata di mondo – pativano per soddisfare il desiderio di sviluppo dei loro popoli e delle loro popolosissime città.
In mezzo a quei due paesi già in avanzata fase d’industrializzazione, c’era il piccolo, agreste e arretrato Laos. E l’acqua che affluiva al Mekong – l’acqua buona, quella alta in quota, piovuta in quantità monsoniche sui rilievi annamiti che, a levante, segnano il confine col Vietnam – correva quasi tutta lì. Una batteria di corsi d’acqua che da oriente scendono verso la piana alluvionale del gran fiume. Da anni ormai quella era una fetta di territorio in cui imprese perlopiù cinesi, con capitali, uomini e mezzi d’opera cinesi, costruivano una delle più alte concentrazioni continentali di nuove dighe; e poi esportavano abbastanza equamente all’incirca metà dell’energia prodotta verso la Thailandia e l’altra metà verso il Vietnam. Pompavano megawatt in corpo a quelle piccole potenze industriali, che crescevano a ritmo sostenuto nella regione e come gli adolescenti in fase di sviluppo non ne avevano mai abbastanza. Per ciascuno di quegli impianti si firmavano di continuo PPA – Power Purchase Agreements, accordi d’acquisto d’energia – un’orgia di PPA su durate decennali o ventennali, mediante i quali società pubbliche o private per metà thailandesi e per metà vietnamite compravano energia, per poi rivenderla con profitto all’interno del proprio territorio nazionale.
Da quando aveva messo piede in quella parte di mondo – con la sua prima diga, in Malesia – la Compagnia aveva adocchiato quel mercato, che fino ad allora era stato riserva di caccia esclusiva dei cinesi, e aveva pensato di possedere forse le armi adeguate per una veloce guerra di corsa, che servisse a saggiare le proprie capacità di penetrazione laggiù. Che le ragioni sulle quali il board della Compagnia basava le sue speranze fossero fondate o meno, che avessero un senso economico o esprimessero solo velleitarie fantasie, l’avrebbero poi dimostrato i fatti. Ma al momento questo era lo scopo della missione di Angelo. Missione che l’aveva portato a rintracciare Venturini, un vecchio esperto italiano di dighe che viveva da decenni a Bangkok.
Ci viveva perché molti anni prima un’altra impresa italiana che ebbe allora il suo momento di gloria trovò per qualche tempo laggiù un piccolo eldorado. A cavallo tra i Sessanta e i Settanta, quando il Paese iniziò a modernizzarsi, quell’impresa si aprì certi spazi e costruì le relazioni giuste per accaparrarsi gli appalti di buona parte delle infrastrutture di cui quella nazione aveva bisogno per affacciarsi alla modernità. Per un certo tempo fece ottimi affari laggiù, costruendo dighe, strade, canali, reti elettriche e idriche, prima di ritirarsi a goderne i frutti in territori più tranquilli, nel mediocre tran-tran industrial-finanziario di un’azienda qualunque. Destino che accomuna quasi tutte le imprese rampanti: hanno una fase eroico-pionieristica, in territori lontani a concorrenza rarefatta, che dura qualche lustro; poi si strutturano, si quotano in borsa e si ritagliano il loro ‘buen retiro’ affacciato sui mari di casa, calmi e poco profondi, nella mandria d’aziende che grufolano tranquillamente su quelle spiagge affollate. Quei territori più o meno civili e regolati che non negano mai ai parvenu emersi dalla loro breve fase corsara un pezzetto di spazio, quasi una sorta di diritto alla pensione.
Beh allora, alcuni decenni prima, l’impresa per cui lavorava Venturini non era ancora un’azienda in pensione, era un’azienda giovane e gagliarda, animata dall’autentico spirito d’intrapresa che spinge alcune compagnie che potremmo definire di ventura a far soldi in luoghi inesplorati; e qualche volta trovano, assieme ai soldi, avventura e gloria (se non trovano i soldi, certamente non trovano neppure la gloria; può darsi che, pur in assenza di soldi e gloria, trovino comunque dell’avventura; ma allora non la chiamano così: la chiamano sciagura, fallimento, talvolta tragedia). Venturini era il loro uomo laggiù. Per una ventina d’anni quell’impresa costruì in Thailandia le prime grandi dighe e le opere maggiori del Paese. Poi tornò a casa col bottino e ritirò dall’estremo oriente tutto quel che vi possedeva. Salvo Venturini, che allora era ancora battagliero e non la seguì nella ritirata.
Quella nota impresa romana si mise a fabbricare tubi e traversine nel Lazio e poi giornali e finanza nel resto d’Italia – anziché dighe in Thailandia – e abbandonò Venturini a Bangkok. Ma si potrebbe anche leggerla diversamente. Si potrebbe pur dire che fu Venturini a piantare lei, per ragioni personali: s’era nel frattempo fidanzato con una ragazza del posto che aveva la metà dei suoi anni e che divenne in seguito la madre dei suoi figli e, parecchio tempo dopo, anche sua moglie; e probabilmente fu anche per lei, e non solo per l’avventura, che restò a Bangkok. Preso tra questi fuochi – la donna, l’avventura, l’Oriente – Venturini mollò quella nota azienda romana ormai in odore di pensionamento. Si rese non-dipendente, mise la sua capacità di combinare affari nel campo delle dighe a disposizione di tutti coloro che avevano intenzione di costruirne laggiù – altri occidentali, in principio; e poi cinesi – e ci campò abbastanza bene, su queste consulenze, per tutta la vita; si comprò una bella villa a Bangkok e una barca a vela con cui bordeggiava – altro surrogato d’avventura – le tante isolette del Golfo del Siam; e crebbe i suoi bambini thailandesi con la sua moglie thailandese e la famiglia thailandese di lei. Si trapiantò del tutto, insomma, e arrivò a quasi ottant’anni lucido e in buona salute e attivo, quando venne il turno della Compagnia di servirsi di lui per provare a fare quello che altri avevano fatto con maggiore o minor successo prima di lei. Cose che si ripetono.
La Compagnia lo contattò per quel progetto di Nam Ngum 3 e Angelo andò a incontrarlo a Bangkok e trovarono un accordo e firmarono dei pezzi di carta che legavano Venturini alla Compagnia, con certi compiti e sulla base di certi compensi, per lo studio d’offerta di quella diga; con una clausola che assicurava che poi i compensi sarebbero molto cresciuti, se davvero la Compagnia avesse ottenuto l’appalto e costruito l’opera.
Malgrado l’arrabbiatura e le male parole, quella sera Venturini tornò. Ci teneva pure lui, all’affare. Il ristorante cinese del Mandarin Oriental era un posto troppo formale, per Mr O, che si vantava d’essere un gran conoscitore dell’autentica cucina orientale e volle portarli in una specie di taverna popolare che conosceva lui, a Chinatown, dove servivano granchi vivi. Aveva anche una buona cantina di vini neozelandesi e australiani. Ci teneva, Mr O, a queste cose. Una delle attività di copertura che gestiva a Kuala Lumpur, sotto l’insegna Connaisseurs, era l’importazione di vini europei e sigari cubani. Li portò quindi lì, in questo posto di granchi. Ma la buona tavola non li aiutò.
“Quel suo tizio dell’underground non va bene,” stava dicendo Mr O. “E’ piccolo e arrogante. Ho preso informazioni sul suo conto. Quelli del ministero lo odiano.”
“Certo, perché non paga. Perlomeno non quanto gli altri. Però sa fare il lavoro. E’ uno dei pochi, qui, in grado di farlo. E costa poco,” disse Venturini.
Il posto era una specie di bottega lunga e stretta, che dava su un cortile poco illuminato, dove lungo un rozzo muro in mattoni erano allineate quattro grandi vasche piene di enormi granchi. Una volta seduti, la cameriera – una ragazzina dolcissima, poco più che bambina – fece indossare a tutt’e tre un grembiule semirigido, che annodò con cura dietro le loro schiene. Diede loro delle pinze seghettate e appuntite, martelletti dalla testa bombata a un estremo e acuminata all’altro e delle specie di punteruoli-scalpelli ben affilati, in aggiunta ai soliti chopsticks. Con quella protezione e quegli strumenti, passarono ai granchi. Un inserviente s’avvicinò alle vasche, salì su uno sgabello e, incurante dell’acqua che debordava per il panico seminato tra i crostacei, ne pescò un certo numero col retino e li rovesciò dentro un catino che poi consegnò al cuoco.
“Ci farà perdere l’appalto,” disse Mr O. “In commissione quel banditello non vogliono vederlo neanche dipinto.”
“Ci farà essere competitivi, invece,” ribatté Venturini. “E quando verrà il momento, tra uno che promette molto ma non è capace e uno che magari li unge un po’ meno, ma sa lavorare, anche i membri della commissione opteranno per il secondo. Quelle sanguisughe lo sanno, che il mio uomo è bravo; e vogliono l’opera, perché senza non ci sarà niente da spartire neanche per loro.”
I primi granchi arrivarono in tavola stesi su un vassoio di latta e iniziò il corpo a corpo. Venivano a set di tre, cotti in modi diversi, perlopiù arrosto, con salse molto piccanti e speziate. Bisognava afferrarli con le pinze, ficcarvi dentro – in un certo punto tenero, più o meno sotto gli occhi – il punteruolo-scalpello, fare leva e scoperchiarli; poi, con le pinze, strappare chele e zampe, rompere la corazza col martelletto ed estrarre dalle macerie una polpa squisita, da intingere coi chopsticks nelle salse speziate. Arrivarono anche ciotole di verdure, riso bollito e dumpling di gamberi. Servirono il vino, Cloudy Bay, un sauvignon neozelandese molto minerale, della contea di Marlborough.
“Lei difende quel tizio per ragioni sentimentali,” disse Mr O. “Siccome ci ha lavorato in passato, da giovane, rivuole con lei il suo baby. All’età che ha, è ancora innamorato dei vecchi compagni… ma i sentimenti fanno male agli affari.”
“Come si permette? Non mi tratti da vecchio rincoglionito. Niente sentimenti, solo affari. E’ lei, piuttosto, che vuole infilar dentro gli altri perché chissà cosa le hanno promesso. Non solo a quelli del ministero, anche a lei in persona.”
“Potete farmeli incontrare entrambi?” Provò a intervenire Angelo, tentando un break prima che arrivassero agli insulti. “Chiediamo un’offerta a tutt’e due, le valutiamo, incontriamo separatamente l’uno e l’altro e poi decidiamo il da farsi.”
“E’ un mondo piccolo, le voci corrono, così sputtana il mercato,” disse Venturini. “Se lo prendiamo a bordo subito, come partner, possiamo aspettarci un certo tipo di collaborazione. Se lo mettete in competizione con altri è diverso. Perché dovreste aspettarvi un trattamento speciale, in tal caso? Non spendo il mio nome, se volete metterlo in concorrenza.”
Niente da fare. Malgrado i granchi e il buon vino, era la solita tiritera: in disaccordo praticamente su tutto, su ogni singola questione. Non si riusciva a mettere insieme una squadra, non si prendeva una decisione.
“Queste luride botteghe cinesi,” concluse Venturini. “Guardi come siamo conciati!”
Un po’aveva ragione. Nonostante l’ampia protezione dei grembiuli e gli arnesi da scasso, pareva uscissero tutt’e tre da una zuffa, più che una cena: dita ferite, musi sporchi, patacche ovunque. Intrisi di puzza di granchio da farsi inseguire dai gatti, nel vicolo. Lui però lo disse al solo scopo d’offendere Mr O, che li aveva portati in quel posto; e ci riuscì.
La prima volta che l’aveva incontrato, a Bangkok, non gli aveva fatto una grande impressione: un vecchino minuto, molto abbronzato, con due occhietti infossati nelle orbite di un ocra chiarissimo, color cane che fugge; e l’aveva, un che di fuggiasco, quello sguardo che non sosteneva mai a lungo quello dell’interlocutore. I capelli candidi ancora abbastanza folti, pettinati all’indietro sulla fronte stempiata, fittamente solcata di rughe. Parlava a voce bassissima e aveva modi eccessivamente cortesi, che a prima vista trasmettevano un’idea di fiacchezza, d’irresolutezza. Quel fondo di paura che a volte mina nelle fondamenta certi espatriati anziani, rimasti troppo a lungo all’estero, che hanno perduto il loro paese senza acquisirne uno nuovo. Forse non era l’uomo giusto laggiù.
Ma bastò una giornata a dissipare i suoi dubbi. In poche ore Venturini lo condusse per gli uffici dei tre o quattro IPP – Independent Power Producer – che avevano in mano quasi tutto il flusso d’elettricità entrante in Thailandia dal Laos, gli fece conoscere i loro capi, gli presentò diversi possibili subappaltatori e fornitori che avrebbero potuto essere utilissimi durante lo studio dell’offerta. Lo portò nella sede dell’Authority elettrica thailandese, per i cui corridoi si muoveva come in casa sua. In serata gli combinò un incontro con un pezzo grosso del business nazionale, il presidente di una società ex-italo-thailandese, ora interamente locale, che aveva interessi in quasi tutti i rami delle public utilities nel paese, dall’acqua all’elettricità ai trasporti; un omone enorme, di una grassezza spropositata, che parlava molto lentamente accompagnandosi con gesti macchinosi e spostando con molta gravità lo sguardo dall’uno all’altro degli oggetti sui quali faticosamente si posava. Ogni parola o gesto del grand’uomo sembrava denunciare lo sforzo che comportava muovere tutta quella mole. Li ricevette in un ufficio sconfinato – altro emblema dell’ampiezza dell’impero industriale di cui era a capo – e concesse loro una quindicina di minuti scarsi, durante i quali li trattò con molta cortesia, non scese in nessun dettaglio – impossibile, per le sue dimensioni mastodontiche, anche solo avvicinarsi a coglierli, i dettagli – ma lasciò vagamente intendere che, se mai ce ne fosse stato bisogno, avrebbe potuto mettere una parola presso alcuni membri della commissione che avrebbe valutato le offerte. Nell’eventualità, sarebbe stata una parola di peso pari forse a quello del suo latore, ma naturalmente la condition precedent era che la Compagnia presentasse un’offerta competitiva.
Quando tornò a Kuala Lumpur e gliene parlò, Mr O non la prese bene. Era uno cui non piace dividere. Tanto meno con un westerner.
“Non funzionerà, gli altri non si fideranno. Nessuno di voi può farlo.”
Erano nella lounge che aveva di recente aperto al KL Golf&Country Club, un luogo di ritrovo riservato. Dentro una delle piccole costruzioni bianche a due piani affacciate sui campi da golf, in una specie di salotto-bar col bancone chiuso ad anello e le rastrelliere di bicchieri al centro, si assaggiavano vini europei e si fumavano sigari cubani. Fingendo di smerciare quella roba, Mr O combinava incontri d’affari. Al pianterreno le pareti erano rivestite di teche climatizzate, dov’erano esposti bottiglie e tabacchi. Un certo numero di tavolini ben distanziati sparsi in giro ospitavano occasionali trattative, come in borsa o al mercato. Per quelle più confidenziali, al primo piano c’erano delle stanze chiuse, con le pareti foderate in legno e le porte imbottite, arredate con poltrone e divani in pelle martellata, imitazione Chesterfield. Tutto l’allestimento sapeva di club tardo-coloniale inglese rifatto in chiave kitsch. Sulle pareti erano esposti ritratti di fumatori illustri – Churchill, Hemingway, Al Capone; non mancavano Fidel Castro e Che Guevara – immortalati coi loro sigari da un pittorucolo locale che Mr O aveva ingaggiato per l’occasione. Li aveva dipinti a tinte piatte e lineamenti ben marcati, stile fumetto o quadro pop.
Circondato da quelle caricature di grandi fumatori, Mr O accese il suo Cohiba. Sedeva sprofondato in una delle sue Chesterfield, un ometto magro, piccolo di statura. La prima cosa che colpiva in lui era il contrasto tra il volto – una maschera orientale inespressiva contornata d’una barbetta sale e pepe che pareva incorniciare una natura morta – e gli arti, che erano sempre in lento, inesorabile movimento: le mani sembravano costantemente in cerca di qualcosa da ghermire e anche il resto delle membra periferiche – braccia e gambe – era come attraversato da un moto che avresti detto di graduale avvicinamento, faceva un po’ pensare alle spire di un pitone. Mr O dava sfogo così all’eccesso d’energia nervosa che mascherava in viso. Il suo body language, a saperlo decifrare, era tutto negli arti, il resto era di un’immobilità mimetica impenetrabile.
“Ve l’ho già detto, è questione di faccia,” ripeté. “Ve ne serve una come la mia.”
“Per questo gliene parlo,” disse Angelo. “Vogliamo a bordo anche lei.”
“Io e quel westerner…? Insieme…?”
“E’ quel che mi suggeriscono da Milano. E anch’io la penso così.”
Sicché fu combinato un altro incontro, a Kuala Lumpur. Venturini non volle saperne di recarsi al Golf&Country Club, nella lounge di Mr O. Perciò si videro all’Hilton Central, al piano da cui spiccano le torri. Sumimoto-san, il giapponese che dirigeva l’albergo, mise a disposizione una saletta riservata. Ai bordi della piscina che serpeggia lungo la terrazza erano disseminati bar e ristoranti di cucina orientale o internazionale.
“Non ha nessuna importanza che quel grassone, a Bangkok, vi abbia assicurato il suo aiuto,” disse Mr O. “Lo assicurerà a chiunque. E non sporgerà il collo di un centimetro per nessuno. Gli altri l’hanno incontrato di certo, proprio come voi. E avrà promesso a ciascuno la stessa cosa. Poi, semplicemente, starà dalla parte del vincitore.”
“Conosco Mr Choi da trent’anni,” disse Venturini. “Non mi ha mai ingannato. Se ha promesso di aiutarci, lo farà.”
“E’ un uomo d’affari, una puttana. Esattamente come me e lei.”
“Non le permetto! Dica piuttosto che vuole ficcar dentro quei nobilastri che maneggia lei. Parassiti senz’arte né parte. Quelli sì, puttane. Non daranno nessun contributo all’opera.”
“Puttane, certo. Ma imparentati con la vecchia nobiltà del posto. Non serve che diano un contributo, basta il nome. Ci vuole un’autorità radicata nel territorio. Quel piano, dovete curare. Su quello tecnico o commerciale ve la cavate benissimo da soli.”
“Non m’insegni il mestiere! Lo faccio da più tempo di lei.”
Niente da fare. Neanche l’intervento di Sumimoto-san, che interruppe il match facendo servire il tè a una bellissima ragazza malese avvolta in uno sfolgorante kebaya di seta rossa, impedì all’incontro di deragliare. Quei due vecchiacci non riuscivano a cooperare su nulla. Angelo, disgustato, si ritirò.
Fine della prima parte. Continua


