Every beat of my heart
Rivivere il perduto
Alfonso Gatto, «uno dei massimi poeti del Novecento, non solo italiano», poco considerato dopo la sua morte. Eppure traduce magnificamente i sensi in poesia, crea una «corporeità poetica fantasmatica e sfuggente», intona la sua voce a «un canto profondo e ermetico dell’essere»
L’assoluto della notte, del silenzio, muto e permanente come i sassi. Il mare tra le braccia, l’infinito che abbracci, il molo che congiunge il mondo equoreo a quello terrestre, la vela bianca che sala e traversa le onde: una magia primordiale e modernissima anima e ispira la poesia di Alfonso Gatto, nato a Salerno nel 1909, morto improvvisamente in un incidente automobilistico nel 1976. È uno dei massimi poeti del Novecento, non solo italiano, lo sostengo da sempre, criticando la scarsa attenzione critica nei suoi confronti dopo la sua morte.
Dopo Luzi, Montale e Ungaretti, pochi poeti italiani sono al suo passo, Caproni, Bertolucci, Bigongiari. Nessuno della generazione successiva alla sua (peraltro non travolgente) regge al confronto. Già quasi trent’anni fa, pubblicandone un’antologia esemplare a cura di Francesco Napoli, in una collana di poesia di cui mi occupavo, definivo la sua opera tra le più originali del nostro tempo. Pare non sia elegante citarsi, ma invece è necessario quando veritiere e necessarie parole scritte sono rimaste poco ascoltate: repetita iuvant. «La traduzione in poesia dei sensi, del percipere (vista, udito, olfatto) – scrivevo nella quarta di copertina – la creazione di una corporeità poetica fantasmatica sfuggente come una fata mediterranea, la produzione di una voce intonata a un canto profondo e ermetico dell’essere fanno di Alfonso Gatto uno dei grandi poeti capaci di “sensous Thought”, di pensiero appercepibile dai sensi… Il mondo visibile, che fugacemente s’imprime negli occhi per poi subito scomparire, è scena e argomento del dramma di questa poesia, memoria come agonica ricerca del visibile perduto, dell’istante fuggito, speranza eroica di rigenerare, di far in qualche modo rivivere il perduto».
Queste sere deserte
A vivere di me, con me non passi
queste sere deserte, resto solo,
solo col mio silenzio come i sassi.
Così, col mare tra le braccia, il molo
ha la sua bianca vela che gli parte,
gli torna, e più non sa se il lungo amore
è l’ansia di proteggerla in disparte
o di perderla dentro il proprio cuore.
Ti dò la giovinezza che tu credi
di portarmi ogni volta, per la stretta
del faro salgo a chiedere se vedi
la brace rossa della sigaretta.
Alfonso Gatto


