Paolo Puppa
Su "Per un nuovo alfabeto pirandelliano"

Pirandello al microscopio

L'Italianista Ivan Pupo analizza i temi dell'opera di Pirandello riflettendo sui suoi esegeti e critici. A partire dal celebre "alfabeto" di Leonardo Sciascia

Ivan Pupo si diverte a mettere ordine fra tanti pirandellisti. Va e viene facendo lo slalom tra i loro testi, quasi soldatini da infilare in un grande gioco da tavolo, più che risistemare nella biblioteca personale. Una bibliografia immensa, che occupa 26 pagine rispetto alle 75 del volumetto, dedicato allo scrittore agrigentino. Nuovo, rispetto a quello adelphiano di Leonardo Sciascia del 1989, da cui pure prende le mosse, come ribadisce con umile orgoglio nella sua Introduzione. Un lavoro da bouquiniste erudito, da paziente epitomatore, consono alla personalità di Ivan. Ora, 24 sono le voci dell’inventario, rispetto alle 33 complessive del suo carismatico predecessore, pur non esaustive.

Work in progress, pertanto. Anche suo, il motto “non conclude” che determina il non finito della trilogia meta-teatrale, e si guadagna qui un capitoletto. Sempre di Sciascia, Pupo coglie il passaggio dall’opzione iniziale mimetico-realista con innesti gramsciani-lukácsiani, allergica al sovraccarico filosofico, alla palinodia successiva che apre la strada a recuperi gneosologici, di indirizzo però francese, come lo scettico Montaigne o la terribile “inimicizia di Dio per l’uomo” di impronta pascaliana, più che gli abituali tedeschi. Non manca allora la deriva teosofica, l’esoterismo di cui l’agrigentino si è nutrito sin dall’infanzia tra i racconti folk della tata di casa. Qui nascono le fiabe magiche, qui gli innesti vichiani per la serietà del gioco infantile continuato nella finzione degli attori, qui ancora le crisi di presenza per dirla alla De Martino, i sabba notturni dei benandanti usciti dal mondo pagano, i dialetti locali da lui disprezzati sulla scena ma studiati per la laurea in glottologia a Bonn. Al centro, comunque, la questione religiosa, l’infinito dentro l’uomo attraverso l’arte, il sottotesto biblico della storia lamentosa di Giobbe, il rapporto disturbato con Silvio D’Amico, che si provò a redimerlo, evitandogli in compenso la minacciata messa all’indice dei suoi libri da parte del Sant’Uffizio.

Nell’epistolario compulsivo diretto a Marta Abba, Musa invano amata, arriva del resto nel 1931 a condannare D’Amico quale “prete gesuita”. In quel diario ebbro, si sa, esibisce spesso il peggio di sé quanto a commenti sugli altri. Resta assodata la sua avversione per ogni fondamentalismo ideologico, per ogni “suffisance laica”, ovvero per razionalismi dogmatici di sorta. Avrei gradito una voce sul fascismo, stranamente assente (Mussolini cancellato nella lista dei nomi), solo sfiorato nella detronizzazione volontaria del nordico principe ne La favola del figlio cambiato del 1934. Ma di fatto non manca nessuno tra gli studiosi dell’autore dei Sei personaggi, sia i coevi alla sua opera, sia i più recenti e innovativi, in cui si riscontra persino una sensibilità ecologica. Il tutto alla luce di nuove fonti documentarie. Compendio meta-critico, in una parola, misto di acribia filologica e allo stesso tempo di furore investigativo. A tale proposito, magari per gusto ludico dal libro trasmesso al lettore, si potrebbero controllare i più onorati nella lista finale, a quantificarne le righe, almeno due, che riassumono le occorrenze relative. Subito, balzano tra i protagonisti i canonici Giancarlo Mazzacurati, Romano Luperini, Annamaria Andreoli, Umberto Artioli, in più Pietro Milone e il più giovane Riccardo Castellana. Eppure, nonostante questa “alta densità teorica”, la lettura risulta agile e ariosa, per i veloci spostamenti, i salti improvvisi, gli incipit fantasiosi e differenziati. I 24 capitoletti vengono motivati da categorie della critica, voci dell’ultima teoria letteraria, termini prelevati alle discipline mediche e teosofiche.  Due coincidono con personaggi determinanti per la cultura tra Otto e Novecento: Joyce per le epifanie, inquadrate nei Visual Studies, immagini improvvise sia solari che angoscianti nel nichilismo che occhieggia irridendole dietro convenzioni e illusioni;  Wagner, su cui manifesta una qualche resistenza, nell’eterna contrapposizione a D’Annunzio odiato che lo esalta.  Una, intitolata come il personaggio eponimo, Zafferanetta, novella del 1911, sprigiona atteggiamenti da Postcolonial Studies, per lo scontro tra culture diverse.

Infine quattro voci riguardano critici specifici.  Bachtin per la profanazione carnevalesca e la polifonia delle voci; Giacomo Debenedetti che vi coglie l’insofferenza antinaturalistica del narratore per i nessi causali e le deformazioni espressionistiche dei volti a suggello di un’estetica del brutto; Lukács, quello giovane de L’anima e le forme del 1911, attratto dalla disgregazione del romanzo europeo e dal trionfo del caso sulla scia del Tristam Shandy, non ancora agiografo marxista del realismo sociale;  lo psicoanalista cileno Matte Blanco, oltre e più in là del Freud tendenzialmente evitato da Pirandello, grazie alle logiche simmetriche, al bipolarismo degli opposti. Il che funziona in fondo quale variante del sentimento del contrario, ferocia disincantata da Dio veterotestamentario e insieme misericordia compassionevole e cristologica rispetto alle proprie creature. E costoro d’altra parte denotano tendenze autonome e ribellistiche. Escono fuori nel frattempo gli snodi pirandelliani, le ossessioni, le idee fisse, la geografia di luoghi trasformati o censurati, la defunzionalizzazione degli oggetti che fanno e non si limitano più a stare sulla pagina, come l’acquasantiera usata da portacenere ne Il fu Mattia Pascal, magari pensieri divenuti ectoplasmi, paranoie e spiriti maligni. Da precisare che le citazioni rimandano alla carta, alle edizioni dei Meridiani, non alle prime rappresentazioni in palcoscenico, appartenendo Pupo all’italianistica accademica non alla storia dello spettacolo.  E nondimeno si apprezza Vestire gli ignudi allestito da Massimo Castri nel 1976 per il coro finale dei maschi attorno al cadavere della suicida, a ipotizzare solidarietà femministe al di là di residui misogini, o connotati omofobi a seguire i Gender e i Queer Studies. Tanto più che circola spesso la polarità tra angelo casalingo e perversa femme fatale, specie se attrice, prima dell’incontro fatale con Marta. Nella prima voce,Archetipi, Pirandello fa e disfa miti, riaccostato alla fisica presocratica e alle fonti alchemiche, le miscele di terra e fuoco, aria e acqua.  Perché l’immaginazione dell’autore si erge a generare mentalmente i personaggi, senza passare per la carne mortale, e la madre si impossessa del figlio, anche morto, completandone una lettera al suo posto, vedi La vita che ti diedi del 1922, da Pupo collegato ad analogo episodio in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante del 1948. Qui, la rilettura junghiana dei Giganti della montagna accenna alla fugace apparizione di Maria Maddalena, la femmina cenciosa e delirante presa dai maschi, ossia la variante della Grande Madre declinata in negativo, prolessi se si vuole della genitrice del poeta suicida in Bestia da stile di Pasolini (scritto tra il 1966 e il 1974), alcolizzata, gobba, cialtrona nel suo ruminare contumelie aggressive come «Cagoni, gratatemi la schiena!». La scena intanto si conferma sospesa tra la saviniana haunted house, nell’emozionante voce Hanté, popolata di fantasmi, e la messa a nudo dei processi di scrittura del drammaturgo.  Alle spalle della hantise, ovviamente, la biblioteca di Anselmo Paleari, sempre ne Il fu Mattia Pascal, titoli esoterici assimilati da Pirandello tra piani mentali e reincarnazioni varie. Vivi che sono morti e viceversa, mentre premono dappertutto i traumi della sua esistenza, pulsioni voyeuristiche e incestuose, fantasie suicide e in cambio amnesie difensive. Su tutto si deposita l’Umorismo, contiguo alla pluralità dei punti di vista, meritevole  focus del libro stesso.

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