A proposito di “Frammenti di nobili cose”
La scoperta dei luoghi
La nuova raccolta poetica di Massimo Morasso evita ogni esibizionismo e autoreferenzialità, mostrando, invece, una scrittura forte e diversa
La poesia di Massimo Morasso ha il pensiero, forse ancora prima che lo sguardo, puntato verso un paesaggio insieme reale e metafisico, spazio della concretezza e dell’assenza, panorama che dice ad un tempo della vorticosa vita universale e dell’esilio da ogni terra. Ogni luogo è sempre teatro dell’interrogazione e della scoperta e conserva in sé anche un altrove, un sito che si rappresenta al di là del margine, che si smaterializza e si ricompone in latitudini inarrivabili, in geografie dell’anima. La condizione esistenziale di ciascun essere umano determina “lo strappo dentro / di chi vive in esilio / e patisce inutilmente l’infinito / che noi siamo e che ci manca”. Essere perennemente nello status dell’esiliato, dunque di colui che è forzatamente lontano dal luogo sentito come proprio, induce a un sentimento che esprime mancanza e continuo anelito, disappartenenza e ricerca di una topografia congeniale, e sfocia in ciò che il poeta definisce “nostalgia dell’altrove”.
Nel volume di versi Frammenti di nobili cose, edito da Passigli, che nel titolo, pur se in antifrasi, si propone al dialogo con i Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, si manifesta costantemente la tensione a penetrare in un’interiorità, che è singolare e privata, ma è anche abitata da una divinità assidua e inafferrabile; un’individualità che è mossa dalla materia tangibile, e insieme è spirito, che vorrebbe liberarsi da ogni gravame, affrancarsi nel volo: “Io sono spirito. Tu sei spirito. / Io sono il vortice d’aria, tu l’occhio del ciclone. / Io mi alzo. Tu ti alzi. / Io mi abbasso. Tu ti abbassi. / Noi sprofondiamo insieme / in un’altezza così interna / che ci sembra un abisso”.
Il mondo, con tutte le sue infinite presenze, gli accadimenti che si susseguono senza fine, e che si vorrebbe realtà oggettiva, è in fondo manifestazione nella quale siamo accomunati a ogni altra forma e forse gabbia nella quale siamo intrappolati. È lontananza da superare, ma anche il terreno che imprigiona, il confine che manca e entro il quale, paradossalmente, ci sentiamo espatriati: “Potessi smettere di credere al mondo / come si smette ogni cosa. Potessi / girarmi dall’altro lato del qui / e addormentarmi, fluttuando / nel centro buio della notte / in un’aria caduta, in una terra assente / con tutt’intorno il cielo della luna. Potessi…”.
Ma appunto questa possibilità non è data, il mondo è questo ed è anche il luogo della meraviglia, delle presenze che generano stupore, dell’ “intrecciarsi d’anime” / radianti d’energia”, almeno come avviene “dall’altro lato della vita” (il lato in cui siamo invece, è da credere, sia quello in cui viviamo l’esilio), dove “negli infiniti mondi / l’angelo e la rosa / perfetti nella loro simmetria / senza ali o spine danzano / in un eterno girotondo”.
Nel mondo capita di incontrare, e accade sovente, anche “il bene di vivere”: “Non era niente di speciale, dico adesso. / Un bel tramonto estivo, le cycas in terrazza / con le bipenni a far corona ai fusti, / l’aperitivo in tavola, gli amici, / e l’anima con noi, / che ci assorbiva, astrale, / smaltandoci d’azzurro”.
È in l’alto, guardando verso il cielo, che una soluzione si intravede. Il cielo che non può più essere solo quello dantesco che si definisce e trova conclusione in un paradiso illuminato dalla immobilità di Dio (Dante viene evocato spesso in questi Frammenti), e nemmeno soltanto lo spazio libero dove gli uccelli “impazzano / e screziano d’ali l’aria nel via vai / e a me viene voglia d’inseguirli”, ma è l’immenso dispiegarsi delle galassie, la geografia astrale senza limite che ancora si espande e che, col crescere, fa crescere anche quello che noi esseri umani non conosciamo, forse mai conosceremo, e a cui pure profondamente apparteniamo. Nella poesia che ha il titolo emblematico di Su è scritto “È su che si radica / ogni forma di vita / stellare l’osserviamo / con miliardi d’anni di ritardo”, e ancora “il fuoco dell’Origine” continua a spingere “il Tutto e ogni sua parte / di galassia in galassia / muovendoli espandendoli / nessuno sa verso cosa o chi / e il sapere è il non sapere / una gioia tragica”.
In un panorama letterario sempre più propenso all’esibizione di un sentimentalismo patetico, Morasso conferma di essere una voce poetica forte e diversa, capace di modulare un’espressione colta, senza farne strumento di enfatica autoreferenza. La sua poesia si sviluppa a partire da una riflessione di carattere filosofico, che rimanda a un universo che non è compreso nei meri dati della realtà. Nasce così la ricerca di una verità che, se non appare visibile né forse concepibile, pure in qualche modo in quella realtà è racchiusa. Le cinque sezioni di cui si compone il libro, anche se scandite per “frammenti”, in liriche quasi sempre composte da pochi versi brevi, formano un discorso unitario ben congegnato, ordinato quasi a formare lacerti poematici, sempre dialogante con poeti e pensatori della tradizione, anche recente: oltre Dante e Petrarca, dalle pagine emergono le presenze di Giordano Bruno, di Montale e del suo “male di vivere”, anche questo evocato in antitesi, di Rilke e Mario Luzi, e su tutti di Giorgio Caproni, a proseguire in una linea speculativo-poetica con cui bene si confrontano questi versi.
La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.


