Al Casino dei Principi di villa Torlonia di Roma
Arte di coppia
Una bella mostra ricostruisce in parallelo il tormento umano, artistico e amoroso che ha legato Mario Mafai e Antonietta Raphael: una lunga storia di vita e passione
Raro che una mostra che riporta alla ribalta un autore consacrato ci obblighi ad attraversare il disordine dei suoi sentimenti. Nel linguaggio della critica ufficiale prevale l’inquadramento per categorie, scuole, correnti, scelte stilistiche, certificati di appartenenza a questa o quella avanguardia, l’ordine delle intenzioni e dei riferimenti iconografici come bussola privilegiata e spesso esclusiva che toglie anima e corpo alle sfumature della esistenza vissuta.
Ancora più raro che il metro del disordine delle emozioni sia usato quando a sfilare sul palco sono due artisti, che per tratti più o meno lunghi, siano stati compagni di letto, vita e mestiere. Aver varcato questo confine invalicabile tra pubblico e privato che la macchina celibe degli esperti si è imposto per paura di precipitare nell’indiscrezione del pettegolezzo da romanzo rosa o nel terreno friabile della psicoanalisi, amputando le sintonie e i dissensi, gli slanci e lei illusioni della pancia e dei corpi che diventano travaso o conflitto di segni e di forme nel fianco a fianco della condivisione delle dispute estetiche o dei momenti creativi, è la novità che impreziosisce e rende occasione imperdibile la mostra dedicata a Mario Mafai e Antonietta Raphael, in scena fino al 2 novembre nel Casino dei Principi di villa Torlonia.
Altre volte Mafai e Raphael sono sfilati insieme sulle stesse ribalte, anche di rilievo internazionale come Biennali e Quadriennali, ma sempre con un dosaggio sbilanciato di opere e di risalto in favore del pittore capitolino, considerato il capofila di quella scuola romana alla quale anche Raphael ha aggregato il suo nome. Pochi però i precedenti promossi da gallerie private in cui il giudizio sui loro lavori ha incrociato anche il registro del loro complesso rapporto personale. Nessuno però che lo abbia fatto, in un museo pubblico e qui a Roma, ponendo al centro della rivisitazione proprio il loro rapporto di coppia e misurandone l’impatto sulla pratica artistica di entrambi con la stessa calibrata attenzione alle ricadute sulle scelte creative, rafforzata da un corredo di carteggi, scritti, confessioni e testimonianze indirette che ripercorre tutte le tappe della loro relazione
Approccio sigillato da un titolo, Un’altra forma di amore, che è già una coraggiosa dichiarazione di intenti.
È una frase rubata ad una lettera del 1942 che Mario spedisce ad Antonietta, lui a Roma richiamato alle armi dalla guerra ma lontano dal fronte, lei, ebrea di famiglia e di fede, a Genova insieme alle tre figlie, dove si è rifugiata con lo scudo di amici per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Un bilancio che tira le somme di un lungo rapporto di coppia che si è ormai sfilacciato e non può più essere ricucito, anche per la difficoltà di entrambi di far convivere la rispettiva vena artistica nella bolla di un legame troppo stretto e ravvicinato: «Abbiamo passato – scrive Mario – 18 anni insieme e abbiamo veduto crescere le nostre figlie intelligenti e sane. Ci amiamo ancora molto. Soltanto la nostra natura artistica è stata sempre gelosa di un tesoro di cui sentiamo la responsabilità di non poter distruggere e non ha voluto l’annullamento di uno di noi come esige una certa specie d’amore. Quando tu mi dici che non puoi amare di più che il tuo lavoro io ne potrei essere geloso. Ma ti capisco e allora si è formata un’altra specie di amore, che è piena di armonia venata di sottili nostalgie».
Mario Mafai è sincero in questo suo atto di resa che cerca di salvare il salvabile, ma gli brucia come una sconfitta personale, è un uomo, più fragile di quanto appaia, che sa giocare con le parole ma ci si nasconde, ribaltando senza accorgersene le parti in commedia.
Anni prima quella gelosia che contesta ad Antonietta l’aveva provata anche lui e confessata in una lettera in cui ammetteva di provare invidia di fronte ai suoi quadri per la forza che li ispirava. Una determinazione nella quale lui si era accucciato, congelandola in una posizione di musa e consigliera, cui assegnava il compito di spronare il suo talento e guidare la conduzione del focolare domestico, la crescita e l’educazione delle tre figlie. Senza preoccuparsi delle rinunce non dichiarate che imponeva alla donna e all’artista. Incalzandola con continue richieste di sostegno per aiutarlo a vincere il suo istinto ondivago, le incertezze da intellettuale mai contento degli approdi raggiunti, dei compromessi col mercato per non perdere posizione. Lui in movimento per avanzare in carriera, lei immobile in casa, a dare consigli. Un ruolo di giudice e arbitro, tenuto vivo dal fuoco della passione, delle abitudini e della carne, che per anni, lei aveva accettato e interpretato., con incalzante rigore. Tanto rigore da farlo persino sbottare in uno sfogo che ribaltava ipocritamente le parti. Smettila di comandarmi a bacchetta. E in un rimprovero sotto traccia di fargli concorrenza in casa e al cavalletto.
Antonietta, la moglie accudente, ha retto fin troppo. Poi l’artista così compressa si è ribellata, gettandogli addosso una frase secca come un addio, camuffato dietro una svolta creativa. «C’è già un pittore in casa. Voglio tentar la scultura». Pochi mesi dopo è partita per Londra insieme alle figlie, per collaudare e mettere in pratica questa nuova vocazione, che avrebbe finalmente premiato il suo talento, fino ad assegnarle il peso che meritava nella storia dell’arte del Novecento, tutta o quasi declinata al maschile.
Illuminanti fin qui le parole. Ora tocca alle immagini continuare e approfondire questo groviglio di slanci di errori, di anime, verità e bugie contrapposte, con cui è scritto questo diario di coppia. E il gioco funziona perché il copione sala per sala è costruito su un intrigane gioco di specchi. La coppia messa a nudo da un appassionante accoppiamento di immaginari riflessi dai lavori di entrambi.
Ecco a registrare le fiammate dell’inizio i due attori presentarsi in scena, con un monologo di autoritratti, di poco successivi al loro primo incontro da studenti della scuola del nudo e alla decisione di vivere insieme in quell’appartamento di via Cavour che diventerà l’incubatrice di una nuova, leggendaria fucina di pittura. Antonietta Raphael si rappresenta senza proteggersi con una maschera: un volto struccato di donna già fatta, sei a sette anni più grande di lui, ebrea, sradicata dal proprio paese, la Lituania, per sfuggire con la famiglia alle persecuzioni razziali, che a Londra si è costruita un giro di amicizie intellettuali di spicco, si è presa un diploma di pianoforte, e poi ha mollato tutto per tentare un’altra avventura nel campo delle arti visive.
Il suo fascino è racchiuso in quegli zigomi esotici da orientale e in quelle labbra increspate che raccontano la forza con cui segue l’inclinazione dei suoi istinti e protegge le sue radici. Più che comprensibile che un uomo fragile, pigro, sognatore e un po’ viziato come Mario Mafai, che al tempo viveva ancora a casa della madre, ne sia rimasto folgorato. Ma lei cosa trova in lui? A giudicar dalle immagini credo che il meccanismo della seduzione scatta perché lei lo vede proprio come si vede lui, e rimane colpita dalla capacità di pittore di rappresentarla e rappresentarsi. Nel ritratto che gli dedica spicca la stessa espressione caparbia, lo stesso sorriso spudorato e volpino, lo stesso sguardo sensuale un po’ fosco e rapace con cui l’ha visto dipingersi.
I due quadri affiancati sulla tessa parete sembrano quasi un calco l’uno dell’altro, quello di Antonietta solo più ricco di divagazioni e dettagli. In più c’è anche il particolare della sua mano che su un foglio butta giù uno schizzo del volto di lei. Trabocchetti di passione e di corrispondenza in cui Antonietta precipita senza difesa, accollandosi un bagaglio squilibrato di doveri e parti in commedia, destinato ad esplodere. La miccia non saranno tanto i tradimenti che Mario si concede, ma la paura di tradire sé stessi che assale entrambi. E che è proprio lei a portare verso il punto di rottura. Decidendo di separare le strade e dedicarsi alla scultura. Prima frequentando una scuola a Parigi, poi trasferendosi a Londra insieme alle figlie dove prosegue da autodidatta la pratica del raschietto e dello scalpello, e il corpo a corpo con l’argilla e la creta.
La distanza diventa incolmabile. A raccontarcela un quadro del 1932, in cui Mario Mafai trasporta il tormento e la sua verità del distacco. Nei brevi soggiorni per rincontrare e tenere in piedi il rapporto con lei e le figlie, Mafai butta già un ritratto che raffigura Antonietta nel suo studio. Lei è dritta in piedi un abito nero da teatro, uno scialle in mano, una scarpetta rossa che spunta dalla lunga gonna, l’unica traccia della sensualità che tanto li univa è un guanto traforato che trattiene echi remoti di peccato. La postura e lo sguardo le imprimono un distacco severo e irraggiungibile da dea.
È lei tra i due la più forte. Il pennello di Mafai lo ammette con il rammarico di un io narciso ferito. Sottovoce. Nella bruma dello sfondo, punteggiato dal biancore delle statue e busti in gestazione che riempiono l’atelier si intravede la sagoma di un uomo appeso come un carcerato sottoposto a tortura.
Certo per il maschio della coppia è uno smacco. Ma per l’artista anche una libertà feconda da mettere a frutto. In quel corpo maltrattato, in quei bagliori di marmo sta forse affiorando il presagio di un ciclo di capolavori che verranno fuori qualche anno dopo, quegli scorci di demolizioni del regime fascista che stanno deformando il volto di Roma. Fantasmi di una storia che cambia, di un mondo che sparisce, anche quelli.
A forzare la mano si può attribuire anche alla rinuncia al conforto regolato di una vita comune quel tuffo spericolato nell’entropia che spingerà Mario Mafai verso l’astrazione. Più verosimile però che a indirizzarlo sia il sentore della morte in arrivo, e la delusione della sua militanza politica nel partito comunista da cui si allontana dopo la brutale invasione dell’Ungheria. Isolato, anche in questo passaggio dalla scelta delle tre figlie.
A trarre vantaggio da quel vento di indipendenza è comunque soprattutto Antonietta Raphael. Nella scultura scoprirà un modo originalissimo di cimentarsi con i segreti del femminile, con il dono e il tributo da pagare alla maternità, con le sfide della sensualità, calando l’intensità espressiva dei corpi in uno spazio tempo di arcaico mistero. Davvero illuminante, da questa angolazione, la galleria di lavori, argilla, bronzo, legno, che questa mostra le riserva e mette in contrappunto con le tele dipinte da Mafai in quegli stessi anni ed esposte nella sala vicina. Ma è anche la sua pittura a trarne profitto abbandonandosi con meno freni inibitori alle fantasie della sua cultura mistica e delle sue radici orientali, sdoganando un piacere barocco per i colori e una frenesia per dettagli e spunti narrativi con cui attraversa i territori del sogno e del mito.
In questo nuovo universo coreografico anche l’altra specie di amore con cui i due artisti hanno intrecciato e preservato i fili del loro rapporto, trova in un suo quadro del 1966, la descrizione più giusta e sfaccettata (nell’immagine accanto al titolo). È un ritratto che rende omaggio a Mario Mafai, da poco scomparso. Lui è ritratto in primo piano, davanti a un cavalletto su cui spicca una natura morta infuocata di rosso come un caminetto acceso. Una tuta e un cappello a cilindro incorniciato da una cintura di cornetti di scaramanzia da mago che sta dando spettacolo. Di lato il corpo nudo e sfacciato di lei che lo osserva con desiderio.
Ecco il sublime di una fine senza fine, di cui parlava Mafai nella lettera che prima abbiamo citato. E che qui si trasforma in un testo guida della loro biografia di pittori, un invito a ricercarne le impronte – di abbracci e di fughe, prestiti e furti – che hanno lasciato nel fianco a fianco del loro mestiere comune.


