Sergio Buttiglieri
Al Gran Teatro La Fenice di Venezia

La croce di Emma

Emma Dante mette in scena i "Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc: uno spettacolo molto emozionante e pieno di riferimenti all'immaginario di Tadeusz Kantor

30Emma Dante ha portato in scena con grande maestria a La Fenice di Venezia l’opera di Francis Poulenc Dialogues des Carmélites. Il teatro di questa regista palermitana da sempre è tra le ombre di Tadeusz Kantor: ce lo ricordava lei stessa. Lo ritiene “il maestro” assoluto delle scene del Novecento. Di lui si ritrova costantemente a citare una serie di presenze come la croce che nei suoi spettacoli assumono una presenza paritetica agli attori stessi. E anche qui in questa opera, derivata dall’omonimo testo di Georges Bernanos, ispirato da una novella di Gertrud von Le Fort, che debuttò in prima assoluta al Teatro alla Scala nel 1957, Emma Dante ha utilizzato la croce per mostrarci il corpo di Cristo che si vede in più scene, interpretato da una danzatrice molto androgina, con un fisico che sfugge alla definizione di genere, come, secondo la regista, deve essere Gesù.  E questo Cristo, che ogni tanto appare, nel momento in cui è deposto – quando entriamo nel convento la prima scena che si vede è appunto la sua discesa dalla croce – le carmelitane lo accerchiano, lo fanno scendere dalla croce e lo mangiano: questo corpo sparisce dentro di loro. Quindi si assiste a questo “pasto” del corpo di Cristo che secondo Emma Dante ha un forte effetto scenico, perché il pubblico non si accorge che è scomparso, ma capisce che è entrato dentro di loro.

Blanche, la protagonista, perfettamente interpretata dalla soprano Julie Cherrier-Hoffmann, la regista, non a caso, la fa morire in croce compiendo un vero e proprio sacrificio. Per Emma Dante Blanche, coerentemente con il testo drammaturgico e la musica, compie un percorso esperienziale nella paura che la porterà verso la liberazione da quell’opprimente sentimento.

L’amica Costance restituitaci adeguatamente dal soprano Veronica Marini è un po’ l’extrasistole dell’opera. Non riesce mai a entrare nel suo ruolo di suora e di religiosa perché è una ragazza piena di vita. Lei per la regista rappresenta l’aritmia di queste donne carmelitane che rende il loro cuore anche insano. Esse esprimono la loro fragilità con i loro sentimenti altalenanti e Costance è l’emblema di tutto questo.

La regista ha deciso di ambientare l’opera dentro la clausura. E quindi le scene sono caratterizzate dalle grate. Gli ambienti sono costantemente contrassegnati da barriere. E in questi luoghi non ci si può guardare in faccia, tutto sembra un po’ bisbigliato e nascosto. L’ambientazione è molto semplice e la scena è molto intima. Di grande effetto i dipinti che stanno nella casa della protagonista Blanche: riproduzioni di ritratti di Jacques- Louis David. Grandi tele ad altezza naturale, che diventeranno in seguito le porte delle celle delle carmelitane e poi anche delle cornici vuote. Per poi arrivare infine al momento della ghigliottina, nel quale torneranno ad essere delle tele bianche che cancelleranno l’identità delle carmelitane. La tela bianca, cioè, nel finale scende tipo ghigliottina e cancella simbolicamente la vista di queste donne, tornando alla verginità di una tela non dipinta.

La regia dialoga benissimo con le scene di Carmine Maringola e i costumi di Vanessa Sannino. Coadiuvati dal light designer Cristian Zucaro e i movimenti coreografici di Sandro Maria Campagna. Tutto in perfetto accordo con la direzione musicale di Frédéric Chaslin, che riesce a fare un’ottima riflessione sul modo di fare musica di Poulenc.

Dei problemi della musica contemporanea Poulenc, come ci ricordava Massimo Mila, se ne infischiava. Era pieno di affetto e di gratitudine per i maestri del passato (e per qualcuno dei contemporanei, come Debussy, Ravel e Stravinsky) e si serviva del loro esempio con un’improntitudine che era la sua forza e la sua grazia. In lui ritroviamo il rifiorire della profondità di prospettiva polifonica. Poulenc è forse l’ultimo musicista che assapori con voluttà la disposizione verticale dei suoni nell’accordo. Con la sua indifferenza ai problemi del linguaggio musicale contemporaneo, egli si è chiuso in una musica che conosce soltanto due dimensioni: quella della melodia e quella dell’accompagnamento. Poulenc è un uomo del ventesimo secolo, pieno di sobrietà e di ritegno: la sua musica è tutta genericamente melodiosa, ma non dona grandi melodie. Per il testo di Bernanos, intessuto di sottigliezze psicologiche, queste due risorse d’una melodia pudica e di un accompagnamento tradizionale sono davvero un po’ poco. Il compositore le adopera con raffinatezza squisita, e alcuni dei 16 episodi musicali che compongono l’opera presentano quelle grazie di oreficeria, quel miniaturismo che è del migliore Poulenc. Particolarmente nel grosso nucleo omogeneo che sta a cavallo del primo e del secondo atto. Qui la musica coglie davvero ciò di che nel soggetto più corrispondeva alle doti naturali dell’arte di Poulenc: il vario profumo di femminilità che vapora sotto l’umiltà monacale.

Splendida anche l’esecuzione dell’Orchestra e Coro del Teatro La Fenice diretto da Alfonso Caiani.

Calorosi applausi finali dal pubblico veneziano e dai sempre numerosi stranieri, accorsi a vedere questa rara opera in lingua francese da tanto tempo assente dal cartellone de La Fenice. Ora in replica fino al 1 luglio.

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