Mario Baudino
A proposito di "Museo di sabbia"

I quadri parlanti

Il nuovo libro di Giovanna Di Marco è una raccolta di racconti nei quali sono le opere d'arte a parlare direttamente, attraverso le storie che generano, i personaggi che le affollano, il mondo che esprimono

Vengono alla mente I quadri parlanti, l’opera deliziosa di Pergolesi, leggendo Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, libro atipico e sorprendente di Giovanna Di Marco (Del vecchio Editore, 264 pagine, 18 Euro). Ma è solo una suggestione. Qui non si tratta infatti di commedia brillante, di un gioco a rimpiattino davanti e dietro le tele da parte di coppie di amanti che animano, per così dire, dei ritratti. Siamo a un confronto non poco strenuo tra la vita e l’arte, un gioco (anche stilistico) ma serissimo. E tuttavia i quadri parlano. Una galleria di opere divisa tra antichità, età moderna ed età contemporanea viene sì animata – e non solo descritta – ma soprattutto ascoltata anche al di là della rappresentazione pittorica. Il quadro è il punto di partenza di vicende e storie, siano esse vissute dal personaggio che dice io, ovvero dalla narratrice, siano esse narrate in terza persona, come accade ad esempio nell’ecfrasi simpaticamente dialettale dedicata alla Vucciria di Guttuso.

In questo caso è il dialetto, o comunque un italiano regionale di esso fortemente intriso, a mettere in scena una vicenda che si sarebbe potuta verificare (anzi, ormai si è verificata nella letteratura, e dunque per sempre) quando ancora la Vucciria era il mercato del pesce come nel dipinto. Un piccolo malavitoso si perde per amore innescando una faida feroce, forse tradito dalla stessa amata, forse no. Non si saprà mai. Resta la fatale impronta del luogo, su cui si chiude il racconto. Perché «qua alla Vucciria una volta c’era vita di giorno, ora ci sono le taverne e ci vengono gli studenti e gli stranieri la sera, che sempre vita è anche se il mercato non c’è più. Non era come diceva il Turco, che la Vucciria non finirà mai, ché tutte cose finiscono a questo mondo. E i morti ammazzati non erano solo i pescespada o i pezzi di vitello messi là sopra con i ganci, ma pure i cristiani».

Se ci siamo dilungati un poco sul racconto è perché rende bene il modo di lavorare di Giovanna Di Marco. Non si arresta infatti all’ecfrasi, ma punta all’interpretazione, all’ermeneutica. È certamente nutrita di una tradizione siciliana, da Gesualdo Bufalino a Leonardo Sciascia a Vincenzo Consolo, ma non solo. Si direbbe che il libro, proprio per la sua struttura e la sua libertà nei confronti delle immagini, guardi all’esempio di uno scrittore come W. G. Sebald, dove però si tratta di immagini per così dire minori, cartoline, fotografie, pretesti. Nel Museo di sabbia il punto di partenza è invece sempre illustre, memorabile, e irradia proprio nella sua altezza, si direbbe sublimità, storie apparentemente “minori”. Un esempio è il capitolo, uno dei più affascinanti, dedicato al Kokoschka di La sposa del vento.

È un dipinto cruciale. Come si ricorderà, la coppia è adagiata su una sorta di sfuggente nuvola, su un gorgo d’aria, lei abbandonata e sazia di sé o dell’amore consumato, lui sveglio e con uno sguardo fisso e pensieroso, quasi allucinato (il pittore austriaco soffriva di morbosa gelosia – non del tutto ingiustificata – nei confronti dell’amatissima Alma Mahler). Giovanna Di Marco trasforma la scena nelle riflessioni di una donna che dorme sul petto dell’amato e in quanto Alma Mahler, o come lei, im­magina “il proprio inferno” e il desiderio di libertà. In questo come negli altri racconti, percorrendo come scrive «il crinale fra l’arte e la vita» si tratta per lei di   esplorare la genesi «della creazione attraverso sogni, ricordi e apparizioni, la vita di un personaggio ritratto e la sua consegna alla storia» ma anche «l’azione taumaturgica dell’esperienza sensoriale».

Le “scorciatoie narrative” vanno nel profondo e dell’imprevedibile, in una varietà non solo di stili, da quello alto o addirittura arcaicheggiante – come nel testo dedicato al San Gerolamo nel suo studio di Antonella da Messina – a quello realistico od esistenziale; ma anche di generi narrativi, dal romanzo storico al giallo, magari appena evocati sullo sfondo della vicenda. Così un racconto può essere una lettera di Sandro Botticelli anziano e intristito, oppure una divagazione borgesiana (Borges è del resto uno degli autori convocati esplicitamente nel coro del libro) su un mosaicista a nome Teofane partito da Costantinopoli, che a Palermo deve eseguire nella Chiesa della Martorana la scena dell’incoronazione di Ruggero II – o meglio preparare i disegni su cui lavoreranno gli artigiani – e non ha pace perché l’amore lo immerge in una sorta di ansiosa melanconia e il senso di colpa o di impossibilità rispetto all’opera alla fine lo perde.

Si potrebbe proseguire con gli esempi, e andrà ricordato che sono inframmezzate, le sezioni, di piccoli avvisi al lettore, o confessioni metaletterarie in un libro che ha sicuramente il merito di non essere mai del tutto eguale a sé stesso, ma di rilanciare a ogni pagina la sfida tra il raccontare e il tempo, o meglio ancora tra il raccontare il tempo e il tempo del raccontare. L’altra evidenza, non certo secondaria in un panorama non solo italiano dove spesso la narrazione si incentra su una mera forma di narcisismo d’autore, è che qui Giovanna Di Marco cerca si direbbe sperimentalmente una diversa ragion d’essere del libro, dunque della scrittura, al di là dei generi e degli stessi sogni. Che pure ne sono l’architettura segreta. Non è del resto l’amato Borges a ricordarci il caso del saggio cinese che sognò di essere una farfalla, ma al risvegli non sapeva se fosse in quel momento stesso un uomo che aveva sognato una farfalla o una farfalla che stava sognando di essere un uomo?


Accanto al titolo, Renato Guttuso, Vucciria, 1974.

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