Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Melodramma francese

L'amore, la violenza, la vita in banlieue, l'adolescenza... "L'amour ouf" di Gilles Lellouche ha tutti gli ingredienti del melodramma. Ma cucinato in salsa contemporanea

Cercate un melodramma per non pensare ai drammi veri che quotidianamente il mondo affronta? Un film che abbia del melodramma i foschi chiaroscuri, le fulminee pennellate, i colpi di scena improbabili, la musica assordante, il romanticismo che non lascia scampo e ovviamente anche la durata? Allora non perdete L’amour ouf dove “ouf” sta per il suo anagramma “fou” (titolo italiano “L’amore che non muore”), passato a Cannes l’anno scorso e campione d’incassi in Francia. Dura davvero quanto un melodramma: 161 minuti, ovvero i tre atti della Traviata di Giuseppe Verdi senza gli intervalli. Il titolo dice già tutto: al centro del racconto c’è un amore di quelli che riducono in macerie la vita, che se ne frega delle regole e delle consuetudini della società cosiddetta civile, insomma l’amore folle che non conosce ostacoli e vede solamente l’oggetto del desiderio. 

Certo il regista deve essere un tipo spericolato, perché un amore così l’ha già raccontato uno che si chiamava François Truffaut nel capolavoro La femme d’à côté, ovvero “La signora della porta accanto”, una storia che si riassumeva nella frase che si ripetevano Bernard e Mathilde (Gérard Depardieu e Fanny Ardant): «Né con te né senza di te». E sappiamo com’è andata a finire. Ma era il 1981 e anche i melodrammi si sono adeguati ai tempi dove tutto sembra possibile: possono proporre un finale trucido nelle prime scene, raccontare la storia come un lunghissimo flashback e poi, come avveniva in Sliding doors, succede qualcosa che spariglia le carte e il finale cambia, volando forse verso l’happy end che non ci si aspettava (e che al botteghino piace tanto).

L’autore del miracolo che gli addetti definiscono crime romance (un film dal budget esagerato, intorno ai 36 milioni di euro, ma che in Francia ha sbancato e probabilmente funzionerà anche qua), si chiama Gilles Lellouche ed è più noto come attore che come regista: era tra i protagonisti di una commedia di successo, Piccole bugie tra amici e del suo sequel Grandi bugie tra amici. Il soggetto l’ha scovato nel romanzo Jackie Loves Johnser OK? di Neville Thompson, una storia che a tratti mi ha fatto venire in mente Il Conte di Montecristo e West Side Story catapultati negli anni ’80 del 900, tra le bande violente nella banlieue di una città imprecisata nel nord della Francia. 

Le scene iniziali del film sono travolgenti, anche grazie al ritmo serrato della colonna sonora firmata dall’americano Jon Brion.

Esterno notte. Nell’abitacolo di una macchina nera di grossa cilindrata seguita da altre tre vetture identiche, quattro giovani sovreccitati dall’hashish si preparano a massacrare con fucili e pistole una banda concorrente che ha osato invadere il loro territorio. Al volante c’è il loro capo, un giovane uomo che urla arrabbiatissimo perché non dovevano fumare, anche per fare un massacro serve lucidità. Mentre lui strapazza i suoi, suona all’improvviso il suo telefono (un vecchio Nokia), c’è una donna che lo sta chiamando da una cabina telefonica. Chi sarà? Lui ha un attimo di incertezza, ma non c’è più tempo. Tutti balzano fuori, le raffiche esplodono nel buio, le ombre si inseguono sui muri del tunnel, il giovane protagonista cerca scampo rientrando nell’auto, ma qualcuno gli spara, la sua testa crolla sul volante e il clacson urla nella notte. È davvero questo il finale del film?

Come andrà lo scopriremo solo due ore e mezza dopo. Seguendo la storia che travolge due ragazzi diversi in tutto, ma inesorabilmente destinati a innamorarsi l’uno dell’altra: Jacqueline e Clotaire. E che si tratti di un dramma, anzi, di un melodramma, ce lo dicono già i titoli di testa, sparati a lettere cubitali rosse come faceva Sergio Leone e poi Quentin Tarantino. È facile lasciarsi prendere dall’irrazionalità dell’amore impossibile tra due adolescenti e dalle vicissitudini che, come in tutti i romanzi criminali, il destino si inventerà per ostacolarli, compresa una condanna a dodici anni di galera per un omicidio che Clotaire non ha commesso. Lo spettatore che avrà la pazienza di seguire i due innamorati, dovrà attendere la scarcerazione di Clotaire e quello che ne seguirà, visto che nel frattempo Jacqueline si è arresa al matrimonio. 

La prima parte del film è certamente migliore della seconda, la lunghezza della pellicola e la ripetitività delle situazioni finiscono per pesare sulla visione e per convincere lo spettatore che, anche se accattivante, tutto è comunque troppo. Indiscussa è la bravura del cast, sia dei due protagonisti adolescenti, sia soprattutto di Clotaire e Jacqueline da adulti (François Civil e Adèle Exarchopoulos, la celebre protagonista di La vie d’Adèle, Palma d’oro a Cannes 2013). 

Conclusione: se avete voglia di un melodramma consiglio di rivedere La signora della porta accanto. Ma in fondo, in questi tempi di sale vuote, vale il titolo di un vecchio film di Woody Allen: basta che funzioni. 

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