Danilo Maestosi
A Gorizia, a Palazzo Attems

Arte dell’invisibile

Una grande retrospettiva rende omaggio a Zoran Music, un grande che ci restituisce il senso dell'esistere e il mistero della pittura come una danza di fantasmi

Zoran Music. Che emozione rincontrare un artista che riesce a trascinarti nel regno dell’invisibile dal quale la società delle merci ci ha allontanato. Un artista che ci restituisce il senso dell’esistere e il mistero della pittura come una danza di fantasmi. E tra i fantasmi. Divinità della leggerezza capaci di attraversare i muri della storia, risalire dal profondo dell’anima, celebrare il tempo che scorre e scoprire l’intensità di uno sguardo bambino, che assapora la memoria di ogni istante di meraviglia come un ritorno al futuro scolpito nel paesaggio, che è già in se sorgente di ogni forma possibile, lavagna di un continuo trapasso dall’organico all’inorganico sul crinale tra vita e morte.

Così incerto e sfuggente che a ogni passo puoi scivolare nella paura, nella rassegnazione, nella dittatura della sopraffazione e dell’orrore. Trovandosi di fronte altri spettri, altre divinità crudeli e impietose, consacrate da incubi che ti avvelenano il giorno e la notte e rubano speranza. Lasciando solo due scelte a chi si è votato al potere di testimonianza dell’arte. Immergersi in quel mondo di ombre come in una nuvola cupa di bufera dove è impossibile separare pioggia e sereno, al massimo un lampo di luce nel buio. Oppure cercare di ammansire quei fantasmi malevoli, addomesticandoli, offrendo loro il riparo di una casa dove possano continuare a giocare tra loro e con noi.

Zoran Music (1909-2005), profonde radici slovene ma un’anima nomade che ha trovato una seconda patria a Venezia, ha attraversato entrambi questi territori di convivenza con i fantasmi propri e del suo tempo, lasciando una traccia indelebile e inconfondibile nella storia della pittura del Novecento. Ma così personale e refrattaria alle mode da rischiare di farlo scomparire all’orizzonte come un viandante troppo eccentrico e riservato per il gusto narcisista e per il consumo a grandi numeri e plateali eccessi del turismo dell’arte di oggi.

Uno spreco imperdonabile di visioni e riflessioni attualissime al quale cerca di sottrarlo una ampia retrospettiva appena inaugurata nella terra dove Zoran Music è nato. In un museo di Gorizia, Palazzo Attems, fondato quando la città era ancora una provincia dell’impero asburgico, proprio come il borgo di Boccavizza, un villaggio di campagna a 8 chilometri da qui, dove viveva la sua famiglia.

Quanti cambi di scena, di bandiere e di identità da allora, costellati da macerie e da lutti. Una Gorizia spaccata in due. Di qua una città riconsegnata dalla prima guerra mondiale all’Italia, strade case e palazzi che restano echi dell’Austria che fu. Di là, Nova Gorica, un insediamento di grigi palazzoni popolari, ultimo lembo del regime comunista d’oltre cortina, che prima alzava il vessillo della Jugoslavia e dopo la crisi dei Balcani quello della Slovenia. Lo stesso paesaggio di boschi e colline di viti, lo stesso fiume, l’Isonzo, che le attraversa, tagliato da confini maltracciati, lingue diverse e sbarramenti doganali che sono saltati solo quando la Slovenia è entrata a far parte della comunità Europea.

Gorizia e Nova Gorica elette e riunificate quest’anno a capitale della cultura europea. Con un cartellone di manifestazioni in cui la mostra di Zoran Music, in programma fino al 31 ottobre, si è iscritta come il titolo più sofisticato e ricco di significato.

Un viaggio tra i fantasmi. che segnano come un marchio di fabbrica tutte le tappe e gli andirivieni del suo percorso e del suo nomadismo creativo, dagli anni 30 alla morte. Perché da subito il suo talento si manifesta in una capacità straordinaria di scoprire e catturare fantasmi con uno sguardo che penetra la pelle e la ridondanza delle apparenze e guida verso la sintesi del segno il suo pennello e la sua tavolozza.

Asciutti, prosciugati, trascinati verso una presenza polverosa i suoi colori, ridotta a poche linee guida l’inquadratura, la visione delle figure che le avvicina e le allontana allo stesso tempo, luci ed ombre che convivono nella stessa nebbia. Ogni quadro come il manifestarsi di un’apparizione, perché – lo spiega lui stesso – i suoi occhi partono dal buio delle palpebre abbassate e poi riaperte per catturare le vibrazioni di luce, con la stessa tenacia con cui al risveglio si tenta di trattenere i sogni prima che sbiadiscano. Una cerimonia declinata sempre al ritorno che celebra la forza della memoria ma anche la difficoltà di fermarne il transito. Per farlo bisogna allevarli questi spettri di emozioni sfuggenti, accoglierli, dargli casa, moltiplicarli, esserne circondati.

Il vero colpo d’ala di questa mostra goriziana è di aver trasportato al centro del racconto e del percorso di esposizione proprio queste “case” dove Music ha abitato e allevato le sue fantasie. Gli studi dove lavora, sperimenta, si lascia avvolgere dalle sue visioni e dagli affetti. Sono tutti ambienti veneziani. Perché la città sulla laguna è quella dove ha piantato radici più profonde, ha scoperto assonanze più intense col suo modo di immergersi nel flusso della storia e del tempo, dove ha fatto il primo grande balzo in carriera, trovato amici ed estimatori, messo su famiglia, lasciato più tracce di sé.

Del primo atelier veneziano, dove è stato accolto e ha trovato rifugio negli anni turbolenti della guerra mondiale ed è poi tornato dopo un atroce esperienza di deportato dalla Gestapo a Dachau, non resta che un bancone di cimeli e una tabellata di quadri di quegli anni, recuperati e esposti all’ingresso dalla curatrice Daniela Ferretti, come prologo introduttivo. Sulle ante del mobile che ha fabbricato e decorato spiccano come in una nicchia di lari due figure, i suoi genitori? In alto c’è un pannello con un autoritratto.

Benvenuti i miei amici, sussurra una scritta a stampatello in calce. Di fianco un’antologia dei suoi temi ricorrenti in questo periodo. La laguna solcata da barconi che trasportano i cavallini della sua terra d’infanzia, quelle donnine col parasole che tanto lo hanno incantato da ragazzo. Fantasmi d’amore e innocenza, a cui chiedere protezione. Idoli che allontanino il dolore del campo di sterminio di Dachau che si porta dentro dopo la liberazione (le date dei quadri rimandano quasi tutte ad anni successivi) e a cui a lungo non concederà parola.

Nel secondo studio, quello che frequenterà con Paolo Cadorin, amico restauratore, figlio del pittore Guido, suo futuro cognato, queste immagini diversivo riempiranno ogni spazio, pareti, mobili, soffitti, piattini, tazze come un’imbottitura contro l’angoscia. A fargli sollevare qualche bordo della maschera è solo una progressiva ricerca di maggiore semplicità: dopo la guerra molte cose – confessa – con cui riempiva le tele gli sembrano inutili. Anche i colori si fanno più terrosi, impregnati dei colori del Carso che è la sua Itaca.

Lo spettacolo è nell’insieme. Quell’interno sovraccarico di memorie, miraggi, è ormai sparito, non c’è più. Ce ne ripropone con fedeltà il modello, l’ispirazione e gli umori un’altra stanza affrescata, commissionata da due sorelle svizzere che lo avevano scoperto visitando il pittore al lavoro nello studio veneziano di Ca’ Pisani e ne erano rimaste incantate. Gli mettono a disposizione uno scantinato della loro villa fuori Zurigo e lo pregano di decorarlo e arredarlo a piacere, imitando visioni e atmosfere del suo atelier veneziano. Lo spazio è più piccolo, c’è appena posto per un tavolo, diversi gli usi, cui è destinato, chiacchiere di dopocena per pochi amici, a volte un giradischi acceso per le coppie che amano il ballo. Aiutato dal cognato Paolo Cadorin che prepara il fondo rafforzando lo strato d’intonaco con una fitta rete a maglie, progettata con lungimiranza per favorire il distacco degli affreschi, Zoran Music ci lavora per mesi. Tappezzandolo di riquadri dipinti disposti in modo irregolare, per consentire allo sguardo di chi ci si ferma di scegliere le immagini che il variar degli umori o la posizione più gli suggerisce.

Ritrae le due committenti, il volto di Ida sua moglie, e poi un campionario dei suoi leitmotiv, la laguna, scorci di monumenti, casti e stilizzati nudini, le barche, le donnine con gli ombrellini, i colori sfumati e terrosi che preferisce e restituiscono silenzi e stupori di assorta malinconia. Un capolavoro che il sostegno della fondazione svizzera Dornacher, voluta dalle due sorelle, ha salvato e trapiantato in una scatola espositiva che può essere spostata e inserita in ogni progetto di rivisitazione dell’arte di Zoran Music. Un monumento della dilagante creatività che scandisce la sua produzione tra i trenta e i quarant’anni.

Indispensabile ponte di un passaggio da questo prima al dopo delle tante svolte che la sua inquietudine imbocca. Capitoli di una narrazione che questa mostra goriziana percorre nelle altre sale con una scelta di opere di prima scelta.

Il primo significativo cambio di rotta matura all’inizio degli anni ’50. Un viaggio e un soggiorno a Parigi, prezioso per i contatti che stabilisce e gli dischiudono le porte del giro che conta, gli consentono di togliersi di dosso, probabilmente, quell’abito mentale di artista periferico, marginale, che teme di essersi cucito addosso. Per questo si lascia contagiare da un vento di tendenza che assegna un futuro vincente alla pittura astratta e all’informale. Durerà poco, il tempo di scoprire che il conflitto tra astrazione e figurazione è un falso problema, che la sua vocazione e la sua sfida è un corpo a corpo con la vita, la memoria e la storia che fa leva sulla presenza sempre in bilico dell’umano.

Ma quel modo di dipingere di getto e senza confini gli servirà a rendere ancora più asciutta la sua pittura e aperta all’ombra la sua tavolozza. Fantasie di chiazze cromatiche che si concentrano sulla memoria arcaica delle sue terre del Carso, superano la barriera minerale della terra per cavarne il sangue e la forza che le irrorano Una lezione che anni dopo riprenderà in un ciclo dedicato allo stesso tema, le Terre Dalmate, e in un altro, che oggi appare ammonimento profetico, in cui si concentra sull’essenza della vita vegetale sempre più a rischio, ponte di un legame tra organico e inorganico che è codice e testamento dell’intero universo. Immagini rubate ad un bosco francese devastato dal fuoco: alberi carbonizzati, i tronchi deturpati da cicatrici nere, i rami contorti che gridano il loro dolore, la loro lotta per sopravvivere. Uno spettacolo di fantasmi. Specchio di quel grumo di sentimenti rimossi che l’esperienza del lager nazista gli ha impresso dentro, e solo ora, vent’anni dopo, riuscirà a liberare.

Succederà all’inizio degli anni ‘70, sempre a Parigi. Una mostra evento, curata da Jean Clair, e intitolata “Noi non siamo gli ultimi”, che lo consacra artista di fama internazionale. Come in una seduta psicoanalitica in cui cadono resistenze e barriere Zoran Music tira fuori ed espone i disegni sui quali di nascosto e a gran rischio ha registrato gli orrori delle tragedie che si sono consumate a Dachau davanti ai suoi occhi impotenti di deportato e che, finalmente libero da quel grumo di angosce mai confessate, sviluppa in una serie di tele successive. Il diario duro come un pugno allo stomaco di una discesa all’inferno, tra cadaveri ammucchiati come rifiuti, scheletri e corpi scarnificati. Questa mostra goriziana, gli riserva un’intera sala, che lascia ancora senza fiato il visitatore di oggi.

E attorno ricompone un’altra collana di sale, che scandiscono in ordine cronologico il percorso umano e creativo di Zoran Music, che da lì in poi cambia radicalmente corso e linguaggio. L’artista slavo non imbocca la strada senza ritorno che porterà al suicidio un testimone della crudele follia nazista come Primo Levi ma matura una visione della condizione umana che non consente più divagazioni, esorcismi. La sua ancora di salvezza è l’amore per la moglie Ida, che tanto gli ha dato conforto, per i pochi grandi affetti che l’hanno accompagnato. E poi la voglia di continuare a vivere e difendere la vita che si aggrappa allo sfogo della pittura. Una pittura che sprofonda nel buio e solo lì riesce a distillare sprazzi di verità.

I segni buttati lì come graffi, cicatrici, fondi cupi come una notte perenne da cui sbucano come unici lampi rassicuranti solo il volto accennato di Ida, o la sua mano che sfora come un’apparizione divina le tenebre. Tele che arrivano al cuore. Miracoli di straordinaria intensità, sgranati in varie sale, che vincono anche l’indifferenza con la quale il frettoloso pubblico in transito dei non addetti si arrocca per paura di mettersi in discussione. A loro la curatrice della mostra ha offerto una chiave d’ingresso, di forte impatto. Che non consola ma spiega.

È la ricostruzione di un terzo studio, quello nel quale Zoran Music ha operato fino alla morte. Sui cavalletti delle tele incompiute, ricami di carboncino nero, ondate di bruni diluiti che si allungano da sagome di figure appena accennate. Su una panca dei libri che offrono altre chiavi di lettura di quell’enigmatico padrone di casa: un romanzo di Pasolini, un catalogo di sculture primitive, un saggio sul Minotauro che evoca i misteri del labirinto, e la brutale verità del mito. Anche la letteratura, come ogni specchio di vita umana, genera mostri e fantasmi. Ma perché aver paura degli spettri? Non sono che storie che chiedono solo di non essere dimenticate. Maschere ed embrioni di un istinto di leggerezza che esalta la meraviglia di esistere. Quella leggerezza con cui in una scritta all’ingresso del museo che evoca il vincolo di un testamento Zoran Music ci prega di ricordarlo.

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