Su “La ballata di Memmo e del Biondo”
La ballata dell’inetto
Il romanzo di Paolo Maccari racconta il conflitto tra la generazione dei padri e quella dei figli nel nome dell'attivismo e del successo
Quando un poeta scrive un romanzo, ci si aspetta un romanzo poetico. Con questo aggettivo si fa riferimento in modo generico a una serie di caratteristiche: la lentezza del ritmo, l’introspezione che prevale sul racconto, l’impiego stilisticamente rilevato della lingua in chiave lirica. Ma il nuovo libro del poeta Paolo Maccari, Ballata di Memmo e del Biondo, (Elliot, 144 pagine, 16,50 Euro), non rientra per nulla in tale stereotipo: si tratta infatti di un romanzo-romanzo, cioè di un libro che racconta una storia. D’altro canto, anche le poesie di Maccari spesso raccontano delle storie, per di più con un linguaggio espressivo e quasi sperimentale, che va al di là di un’idea novecentesca di lirismo come mera espressione della soggettività. Dalla poesia viene soltanto la scelta di una prima persona solidissima, che non è mai un pretesto narrativo, bensì determina il punto di vista e lo stile. Oltre, ovviamente, al titolo, che fa riferimento a una forma poetica antica, senza riprenderne tuttavia nessun tratto strutturale, ma forse alludendo più semplicemente a un passo a due, quello del lungo dialogo tra i due protagonisti in cui consiste la maggior parte del libro.
Le voci che ascoltiamo sono quelle del Biondo, un uomo giovane che narra la vicenda in prima persona, e dell’anziano Memmo, il quale ripercorre tutta la sua vita: dalla famiglia d’origine al matrimonio, fino al rapporto con i due figli, un maschio (di cui non ha stima) e una femmina (che invece adora). Il dialogo tra Memmo e il Biondo è quasi una danza, anzi una ballata, in cui il più giovane interviene soltanto all’inizio e alla fine, fornendo una cornice che non è uno stratagemma compositivo ma serve a dare senso a tutto il resto.
Questa ballata potrebbe forse svolgersi ovunque, eppure è tipicamente italiana, per due ragioni. Innanzi tutto, perché essa ha luogo in un piccolo centro, uno dei tanti che costituiscono il nostro tessuto urbano prevalente. In secondo luogo, perché mette in scena il conflitto tra le generazioni, che è sì un tema trasversale a tutte le letterature, ma è tanto più forte in un Paese come il nostro, dove gli anziani sono numerosi e possono avere un peso sociale considerevole.
A fianco a questi due poli se ne colloca un terzo che, se emerge più lentamente rispetto agli altri, è forse il più importante. Il nostro poeta più noto e più tradotto all’estero, Eugenio Montale, è spesso ricordato con una formula celeberrima e ormai abusata: «Vissi al cinque per cento». Con questa formula si potrebbe alludere in modo sintetico ai rapporti tra Memmo e suo figlio, così come vengono descritti al Biondo. Al centro del romanzo c’è infatti l’incomprensione tra un padre che sa fare, che ha ereditato un’azienda portandola al successo, e un figlio più colto e delicato, laureato in Lettere, che quella stessa azienda l’ha fatta fallire. Un figlio che, secondo la visione di Memmo, giustifica i propri errori con una presunta diversità, un sentirsi speciali che autorizza qualsiasi debolezza. Un figlio che però si prende cura di tutti – la sorella problematica, il padre non più autonomo, la sua nuova famiglia – e che da questa forma d’amore viene annichilito ma allo stesso tempo redento. Dietro questo giovane, che in apparenza ha fallito dinanzi all’eredità dei padri, si nasconde il conflitto tra partecipazione alla vita e sua descrizione dall’esterno, tra bellezza interiore e assenza di praticità, che costituisce il rovello di chiunque abbia dentro di sé una dimensione intellettuale. Si tratta, detto in altri termini, di una rielaborazione della figura dell’inetto, che tanta importanza ha avuto nella letteratura novecentesca.
Con questi tre ingredienti – la vita di paese, il conflitto con i padri, la riflessione sull’inettitudine – Maccari costruisce un romanzo breve, perfettamente calibrato nella struttura e avvincente nel ritmo, che non mancherà di conquistare il lettore. E molto potrà dire a ciascuno di noi – sui nostri paesi, sui nostri padri, sulle nostre inettitudini.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.


