Nel centenario della nascita
Leone Piccioni, la civiltà della cultura
Oggi, 9 maggio, il critico letterario avrebbe compiuto 100 anni. Il poeta Loretto Rafanelli, vincitore del Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia 2025, gli rende omaggio nella città toscana dove Piccioni, fondatore del Ceppo, ha vissuto fino all’adolescenza
Gli appuntamenti della 69° edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo, diretto e presieduto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, proseguono a Pistoia fino all’11 maggio. Oggi, 9 maggio, alle 16 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia due incontri: il primo, con il poeta iraniano Garous Abdolmalekian, vincitore del Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari, che tiene la Piero Bigongiari lecture 2025: Accogliere i pellegrini. Il secondo è con Loretto Rafanelli, Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia, che rende un Omaggio a Leone Piccioni nel centenario della nascita e presenta il suo libro Lo sguardo senza fine. 1984-2024 (Jaca Book 2025). Per cortese concessione dell’autore e delle Edizioni dell’Accademia Internazionale del Ceppo Pistoia 2025, che raccolgono nel volume Il riparo delle sillabe e delle parole i contributi dei finalisti e vincitori di questa edizione, pubblichiamo l’omaggio di Loretto Rafanelli. (info: https://www.premioceppo.it/lectures-2025/)
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Ho incontrato Leone Piccioni nel 1987 proprio in occasione del Premio Letterario Ceppo, assegnato in quell’anno a Roberto Carifi: ci fu tra noi un saluto veloce, ebbi solo il tempo di stringergli la mano, come feci con Carlo Bo e Mario Luzi, attraverso la gentile presentazione di Piero Bigongiari, che già conoscevo e frequentavo. Poi negli anni, grazie all’amicizia con Gloria Piccioni (che mi invitò a collaborare a “Mobydick”, il bellissimo inserto culturale da Gloria diretto per il quotidiano liberal), e con Giovanni Piccioni (poeta di rara tensione poetica, che ricordiamo con affetto: pubblicò un suo libro con la editoriale “I Quaderni del Battello Ebbro”, di cui ero direttore artistico), iniziò un rapporto diretto con il grande critico. Ho scritto diverse recensioni sugli scritti ultimi o rivisitati di Leone Piccioni, e le telefonate che ogni qualvolta mi faceva per ringraziarmi erano per me una dolce emozione. C’erano nelle sue parole riconoscenza e soddisfazione, e un tono amichevole. Ero sempre sorpreso che un personaggio di tale statura potesse avere questa attenzione nei miei confronti, perché era chiaro che io mi consideravo il debitore, nel rapportarmi con lui. Ogni volta mi diceva di passarlo a trovare se fossi transitato per Roma o Pienza, incontro che mai si verificò e che certamente rimpiango.
C’era in lui una delicatezza e una sensibilità che mi parevano la scia di una civiltà e di una cultura, di quella stagione del Novecento letterario di cui Leone Piccioni era l’ultimo grande rappresentante. Ma sappiamo anche che fu molto di più che un raffinato critico, essendo stato l’interlocutore di artisti, scrittori, musicisti (e qui come dimenticare la figura straordinaria di Piero Piccioni il grande compositore musicale, il fratello vittima del massacro politico verso il padre Attilio, candidato a cariche primarie nel nostro Stato, la prima pagina nera del Paese), e pure il “costruttore” di una pagina alternativa nell’ambito della Rai, con l’invenzione di spazi di intrattenimento (Chiamate Roma 3131, La corrida, Gran Varietà) e letterari innovativi, in cui l’alta cultura e quella popolare avevano il loro giusto spazio. (Nella foto Leone e Piero Piccioni, ndr).
Fedele alla lezione del suo maestro, il grande critico Giuseppe De Robertis («il critico più fine di poesia che s’abbia», ebbe a scrivere), affermava che per dire di un autore, di un libro, non era sufficiente leggere uno o alcuni scritti dello stesso, ma era necessario conoscerne tutta l’opera, senza quindi vi fossero superficialità e approssimazioni. Sicuramente Piccioni non fu, come lui stesso scrisse, un semplice «annotatore e cronista di questi anni», ma un profondo, straordinario interprete della narrativa, della poesia, della critica del Novecento letterario, per non dire dei suoi studi sugli amati Foscolo, Leopardi e altri classici. E questo a partire da poco più che ventenne. Un volume copioso, così ricco di profondità, aperture e suggerimenti come Sui contemporanei è appunto del 1953. Una scrittura, la sua, peraltro folgorante, avvolgente, creativa, in cui già è presente un certo modo di pensare la critica come un flusso ingegnoso e narrativo, praticata da Emilio Cecchi e altri (Piero Bigongiari intitolò un suo saggio Il critico come scrittore). Un critico, Piccioni, che riusciva a porre in risalto personalità, visioni, tecniche (famosa la sua posizione sulla necessità di tener conto delle varianti) e mondi creativi degli scrittori trattati, ma che pure era attento al rapporto scrittura-vita. Piccioni sapeva che per inquadrare convenientemente un autore si doveva «applicare» uno sguardo ulteriore rilevandone, come scrisse, «le fragilità, le tristezze, le speranze, gli amori».
Insomma un procedere complesso ove far emergere il multiforme e l’umorale, l’etico e l’emozionale, le fragilità e le speranze. Una analisi critica che potremmo definire “totale”, in cui ricorre il tanto detto e scritto dall’autore ma pure il sottinteso e il caratteriale, il sottofondo umano e il riservato. Quindi una critica che si fa empatica, approfondita, colta, emotiva, partecipe, compassionevole. Una critica mossa anche da un profondo rispetto (si pensi alle parole su Pavese, subito dopo il suo suicidio), e da un altrettanto senso di adesione diremmo “cristica”, o forse meglio spirituale, che pur rimane totalmente laica. L’acume interpretativo rivolto ad alcuni scrittori ci risulta memorabile, si pensi alle pagine dedicate a certi prosatori: a Tozzi, a Pavese (con il decisivo dire che: «senza quel fondo di sofferenza umana, senza quelle ingenuità, senza quelle sembianze inermi, indifese, non si potrebbero capire il lavoro, le idee, le sue stesse scoperte»), a Vittorini, a Pratolini, a Gadda (nella foto con Piccioni, ndr), a Landolfi, a Pea, a Bilenchi.
Gli autori toscani sono senz’altro nel suo mirino, nelle sue simpatie. Pensiamo proprio a Bilenchi, un autore peraltro tra i miei preferiti, di cui Leone Piccioni, ne seppe intendere tutti i passaggi più importanti, con annotazioni tanto vere e tanto indicative rispetto a un lavoro giunto a una prima fortunata conclusione (cioè La Siccità, il racconto lungo, che egli considera la misura perfetta del narratore di Colle di Val d’Elsa), ma pure in fieri, che via via giungerà a livelli tra i più alti, ma poi con sviluppi che, azzardo, sono stati “percorsi” dall’autore stesso anche sulla scorta dei rilievi del critico. Perché Piccioni – e questo ci pare un dato significativo – sapeva indicare un cammino possibile, intuendo quelli che potevano divenire gli esiti più riusciti di uno scrittore, sulla scorta di una profonda sensibilità e di una straordinaria capacità di lettura.
Piccioni ha avuto grande attenzione nei confronti dei poeti, e forse anche un senso di necessaria adesione a un mondo che non era primario nella società nazionale. Il “Meridiano” dedicato a Ungaretti, «il nostro maggiore poeta», è un capitolo prezioso della storia critica della poesia del Novecento, un pilastro della critica poetica. Sappiamo bene il legame che ci fu tra il grande poeta e Piccioni, e non viene da aggiungere nulla se non citare una sua nota sicuramente decisiva per catalogare non solo la poesia ungarettiana ma un intero secolo poetico, o meglio un certo modo di intendere la poesia, allorché rileva riguardo al poeta che vi è una: «profonda penetrazione dell’umanità e del suo tempo, dunque, ma resistenza alla cronaca, un parlare per il futuro e non solo per i nostri anni; rara perizia e tecnica del verso, suoi accenti, cadenze, riprese, echi, incanti ecco quanto forma la sigla sicura della grande poesia». Ma la sua attenzione non fu rivolta solo a Ungaretti: seppe addentrarsi anche nella poesia di tanti altri poeti, da Montale a Luzi (che considera il più importante tra i giovani emergenti), da Parronchi a Sereni, da Caproni a Bertolucci. (Nella foto Ungaretti con Leone Piccioni, vincitore del premio Tor Margana, ndr).
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Vi è poi un ulteriore aspetto che vorrei mettere in risalto parlando di Leone Piccioni: quel suo “entrare” in un ambito intimo, domestico, emotivo degli autori. Egli ricorda vari episodi legati a figure illustri del Novecento, sia letterati che artisti, raccontati sul filo di una indubbia ironia, pur nel “recinto” di una amorevole partecipazione. E qui ci sono anche le manie, gli egoismi, le rivalità, le piccolezze, le difficoltà, tratti necessariamente da raccontare, ciò non per svelare le loro debolezze ma semplicemente perché anche questi aspetti erano rilevanti e completavano le loro personalità. Tutto ciò viene detto da Piccioni con comprensione e affetto, con un sorriso bonario, sicuramente con lo slancio di un amichevole abbraccio, di un’amichevole risata, comunque un dire mai cattivo, o raccontato allo scopo di “denudare” il protagonista. Nell’incrocio delle loro debolezze, in fondo Piccioni pare dirci: abbiamo di fronte scrittori e artisti che vivono nel flusso della vita, nel personale e collettivo stare in questo mondo.
Questo “stare” nella vita, questo confrontarsi con la vita, con i suoi molteplici aspetti ma anche con le sue molteplici miserie, è il senso del procedere del grande critico. Certo, taluni comportamenti, raccontati da Piccioni, fanno pensare o semplicemente sorridere. Si pensi a Cardarelli, col suo cappotto pesante in piena estate (che dovrà essere l’involucro «in cui porre il mio corpo da morto»), con i giudizi sprezzanti riguardo tutti, specie contro Ungaretti (di cui falsifica, in una lettera a Raimondi, finanche luogo di nascita e mestiere dei genitori). O a Saba, che bussa alla porta di Cecchi «per chiedere un bicchiere di vino». O taluni confronti, come la mirabile intervista televisiva a Montale (ma non per la trasmissione tv “L’Approdo”, da lui inventata) a cui Piccioni in una sapiente, illuminante conduzione, “spilla”, al riservato e scontroso grande poeta, una perla quasi umoristica ma pure una brillante chiarificazione di un certo modo di interpretare la poesia, che vale la pena di riportare. Parliamo della poesia Elegia di Pico Farnese ove vi è menzionato il “fanciulletto Anacleto”, di cui la critica affermava fosse un antico papa: Montale, (nella foto con Leone Piccioni), con sottile ironia, risponde essere in verità un giovane aiutante di un tiro a segno, aggiungendo al contempo «che già che tutti dicono così, anch’io penso che Anacleto sia il papa, ma si sa la letteratura si basa sugli equivoci».***
In conclusione, se parliamo di un personaggio dai tanti interessi, dalle tante vocazioni, dalle molteplici conoscenze, ricordiamo anche la passione di Leone Piccioni per la Letteratura americana, specie quella nera, ricordiamo gli approfondimenti nel campo musicale (“sdoganò” alla televisione e alla radio, il jazz, la musica brasiliana, e inserì Bandiera gialla di Arbore e Boncompagni), aiutato in questo dal fratello Piero, autore di centinaia di colonne sonore per film. Ma ricordiamo anche la grande attenzione verso l’arte: conobbe quasi tutti i grandi artisti italiani del Novecento, da Guttuso a Gentilini, da Manzù a Marini, e i più amati Burri e Morandi: del primo scrive che la sua visione si esprime «nelle materie… con quadri che sono un po’ curvi… un po‘ scioccanti»; nella pittura di Morandi, invece, individua «una grande poesia… con quella variazione sul tema che è un principio che viene dall’antichità».
Allora, dove più si inoltra il respiro di Leone Piccioni? A quale fuoco si è maggiormente riscaldato? Alla luce di tutte queste competenze, dei tanti interessi per le varie espressioni artistiche, a quale fonte si è maggiormente abbeverato? Ce lo dice lui stesso in questo chiarificante passaggio: «C’è la musica, c’è l’arte figurativa, la narrativa, la poesia… la musica, pur regalandoci momenti di fortissima emotività, si basa su un rapporto che definirei anonimo, perché manca un significato che si possa trascrivere, come avviene nel caso della poesia dove si ha un testo che comunque leggi… ed è così anche per le arti figurative… la poesia porta a emozioni eguali, forse anche più grandi, grazie alla significatività di un testo, un testo che può riunire i lettori e i popoli, perché ci fa emozionare». (Dal volume Attualità del mio Novecento, intervista di Silvia Zoppi Garampi a Leone Piccioni , Libreria Dante & Descartes, 2015, ndr).
Da Il riparo delle sillabe e delle parole, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Edizioni dell’Accademia Internazionale del Ceppo Pistoia 2025
Foto © Archivio Leone Piccioni