Diario di una spettatrice
Il mondo di Wes Anderson
"La trama fenicia" di Wes Anderson è una favola ("anticapitalista”, secondo il regista) piena di colori e personaggi. E che ruota intorno a una sorta di parodia di Elon Musk
La trama fenicia arriva nelle sale da Cannes senza premi, anzi, giudizi tiepidi per usare un eufemismo, e come sempre mi faccio la stessa domanda: cosa vorrà dirci stavolta il regista e sceneggiatore texano Wes Anderson con il suo cinema che trasfigura la realtà in fiaba, con quella cifra stilistica inconfondibile che lo spettatore riconosce fin dai titoli di testa, che trasforma i personaggi in caricature degli eroi americani e li fa agire su set di colori urlati e acidissimi che più finti non si può?
Per capirci qualcosa ho chiesto aiuto a uno dei maggiori esperti di cinema d’Italia, forse d’Europa, il direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli, che mi suggerisce una chiave di lettura spericolata per decodificare un cinema che finora avevo considerato simpaticamente sconclusionato: Wes è un regista che lavora come un autore medievale, non costruisce sequenze logiche, le sue sceneggiature sono canti pieni di personaggi, citazioni e labirinti, esattamente come Dante costruiva la spirale dell’ascesa dall’inferno al paradiso.
Evocare la Commedia per il film di Anderson è davvero un azzardo, ma forse vale la pena provarci. Lasciamo dunque ogni speranza di capire ed entriamo nel labirinto che è La trama fenicia.
Il protagonista della storia si chiama Zsa-zsa Korda, interpretato da Benicio del Toro: è un magnate con traffici in tutto il mondo e pare la caricatura di Elon Musk. Lo vediamo in volo nel suo aereo privato che dopo pochi secondi esplode, lui sopravvive miracolosamente, è il sesto attentato ordito ai suoi danni da una specie di Spectre di affaristi che hanno deciso di eliminarlo perché sconvolge gli equilibri dell’economia mondiale. In effetti Korda sembra immortale e va avanti coi suoi progetti: considerando la precarietà della sua situazione, decide di nominare erede universale dell’impero la figlia Liesl, preferita ai nove figli maschi adottati. Ma la ragazza, impersonata da Mia Threapleton (figlia dell’attrice Kate Winslet), ha deciso nel frattempo di farsi suora.
Il soggetto, scritto come di consueto a quattro mani col regista e attore Roman Coppola (figlio di Francis Ford e fratello di Sofia), ben presto si ingarbuglia nel labirinto medievale suggerito da Farinelli. In scena entrano a raffica personaggi interpretati da star del cinema mondiale, come avviene in tutte le pellicole di Anderson: Tom Hanks, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Bill Murray, Charlotte Gainsbourg, Willem Dafoe, Murray Abraham, Mathieu Amalric. Sono chiamati dal regista a recitare nel suo deserto di fondali coloratissimi (nel film domina il giallo), dando corpo a personaggi eccessivi come i costumi di Milena Canonero che indossano.
Il baricentro della storia sta nel rapporto tra padre e figlia e negli ostacoli che si frappongono al lascito delle sue fortune, ma nella narrazione principale in cui Korda riordina i suoi affari in vista della successione – nelle intenzioni del regista una favola dichiaratamente anticapitalista – si sovrappongono altri piani: come la dimensione parallela di un al di là in bianco e nero (contrapposto ai colori vividi della “realtà”) dove Dio e i profeti interferiscono sulle vicissitudini degli umani.
Liesl considera i traffici paterni e i suoi sforzi di consegnarle in dote l’impero di famiglia con imperturbabile distacco: accetta di essere erede solo provvisoria e intanto sgrana il rosario e fuma la pipa pensando a come scoprire l’assassino di sua madre, mentre Korda si danna per “colmare il gap” che non è solo faccenda di soldi, ma piuttosto di sentimenti all’interno di una famiglia, la sua, che ancora una volta il regista rappresenta disfunzionale.
Il finale della favola è un paradossale “e vissero felici e contenti”: dopo essere sopravvissuti ad attentati esplosivi, parenti violenti, terroristi della giungla e la Spectre degli oligopoli, padre e figlia si ritrovano a giocare a carte nella cucina di un locale retró, ascoltando Bach e bevendo whisky, finalmente appagati da una vita semplice. Una metafora che rappresenta in fondo tutto il cinema di Wes Anderson, un regista fuori dal coro che sopravvive all’invadenza chiassosa della contemporaneità proponendo tenacemente una poetica per pochi: quelli che ancora credono alle favole o amano perdersi nei labirinti medievali.


