Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Elogio della tristezza

Il film d'esordio di Umberto Contarello, con il marchio di fabbrica di Paolo Sorrentino, è un (esagerato) catalogo di tristezze, sempre senza autoironia

Perché si fa un film? Le ragioni che motivano un film sono diversissime, come le ragioni che spingono a scrivere un libro: raccontare qualcosa che non può più essere taciuta, qualcosa che diventa un’urgenza e un’ossessione, o al contrario per allegria, puro divertimento, storie vere o inventate che riguardano vite che non sono la nostra. Oppure, e succede spesso, raccontare qualcosa di molto intimo, qualcosa che ha a che fare con la nostra vita. Ho visto L’infinito, l’esordio alla regia dello sceneggiatore padovano Umberto Contarello, che certamente rientra nella categoria delle pellicole autobiografiche, ma mi sfugge il vero motivo che l’ha spinto a farlo, francamente io non l’ho capito.

I titoli di testa scorrono sul petto nudo del protagonista che è il regista e anche lo sceneggiatore del film (l’ha scritto con Paolo Sorrentino che lo coproduce, i due lavorano insieme da This must be the place e poi La grande bellezza, Loro, la serie tv The Young Pope).

L’uomo che fissa l’obiettivo in quella prima scena, accasciato in una poltrona, nell’interno notte fotografato nel bianconero (felliniano?) che contraddistingue questa pellicola e che è l’unica cosa che mi è piaciuta, è una persona anziana (dichiara 64 anni, ne dimostra di più), ha l’aspetto trasognato, malinconico ed assente (è “L’uomo in frack” senza il frack) e questa è una dichiarazione di intenti, è chiaro da subito che è così, Contarello gioca a carte scoperte: il protagonista che è anche il regista si metterà a nudo. Davvero?

No, le carte sono truccate, è un’intenzione finta, è un rivelarsi solo apparente, un’esibizione più che una autentica confessione: L’infinito è una recita compiaciuta e indulgente, non ha niente del dramma che c’è in ogni vita, Antonio Capuano gli direbbe: «Ma insomma, la tieni una cosa da raccontare?».

Contarello, che interpreta dunque sé stesso, uno sceneggiatore in crisi per troppe scelte sbagliate, si rappresenta in un momento cruciale, mentre trasloca in una nuova casa romana e cerca fonti di reddito per mantenere il lusso cui è abituato. E come sempre avviene con i traslochi, il bilancio non è solo finanziario, diventa un bilancio di vita: questo lo tengo, questo lo butto. Ma in questa resa dei conti con sé stesso il film si ferma alla superficie, mostra lo sguardo avvilito di un uomo che sa di essere uno sceneggiatore “bugiardo, presuntuoso e inaffidabile”, vaga per casa in pigiama e vestaglia, tira tardi al bar facendosi gin tonic che mescola con le dita, ha qualche rimpianto e qualche fantasma alle spalle: il padre grande attore, la madre austriaca che lui dice morta a Vienna e non è vero. Ma è tutto qui, alla fine c’è comunque l’assoluzione.

Perché nel gioco tra verità e finzione, la cosiddetta “auto fiction” amata dagli scrittori italiani contemporanei (gli esiti migliori nei romanzi di Teresa Ciabatti), la finzione prevale nettamente e il risultato non è all’altezza delle aspettative, le briciole della verità (se ci sono) si perdono tra i cliché dei personaggi, le frasi ad effetto e le auto citazioni.

È un cliché l’agente cinematografico che parla in modo surreale, è un cliché il maggiordomo Lucas che gli serve continuamente caffè, l’aspirante sceneggiatrice che reclama un turning point risolutivo quanto inesistente, sono cliché le donne del suo passato (imbarazzante la scena di sesso). Ed è un déjà vu anche la ricerca di un rapporto coi figli fuori tempo massimo. E le auto citazioni sono palesemente di Sorrentino, da La grande Bellezza a È stata la mano di Dio: Contarello è un Jep Gambardella non più cinico e maledettamente seduttivo, ma solo triste, quindi insopportabile.

E poi ci sono le suore, il marchio di fabbrica di Sorrentino. Ma che problemi ha Sorrentino (e Contarello) con le suore che compaiono ovunque e non si capisce il motivo? La scena del protagonista che corre sul monopattino con la novizia armena nella notte romana (è la locandina del film) e la badessa di non difficili costumi che lo porta alla tomba di sua madre a Padova, non sono divertenti, sono l’ennesima citazione vista infinite volte. Quanto al simbolo dell’infinito tracciato col monopattino sulla neve di piazza Navona inquadrata da un drone e che sarebbe all’origine del titolo, la risolvo con una battuta: infinita è la pazienza dello spettatore che resiste fino a quella scena finale.

Recensendo il film, Paolo Mereghetti giustamente sottolinea che «Umberto Contarello è uno degli sceneggiatori più divisivi del cinema italiano. E sicuramente dei più narcisi». Ma, a differenza dell’autorevole critico di cui condivido spesso le opinioni, non ho colto quell’autoironia sufficiente a salvare la pellicola e a motivarla, ho visto solo l’auto compiacimento di chi continua a crederci. Ma se l’obiettivo del regista era rivendicare la sua idea di sceneggiatura, fatta di “scene che non hanno senso”, allora sì, in questo c’è riuscito benissimo.

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