Diario di una spettatrice
L’angelo della solitudine
“Bird”, il nuovo film di Andrea Arnold con Franz Rogowski è un apologo sulla solitudine (che rimanda al "Cielo sopra Berlino”). E su come si può cercare di conviverci
C’è una ragazza che ha dodici anni e si chiama Bailey. E c’è un uomo di età indefinibile che si chiama Bird. Lo spettatore pensa che il protagonista sia l’uomo che dà il titolo al film Bird ed è vero. Ma è anche vero che i protagonisti della quinta pellicola scritta e diretta dalla sessantenne regista inglese Andrea Arnold, sono la solitudine umana e qualcosa che potrei chiamare pensiero magico, la magia che ci fa immaginare una gigantesca aquila che strappa i cattivi dalla terra e ci consola tra le sue grandi ali.
Aspettavo di vedere Bird da un anno, da quando passò l’anno scorso a Cannes, per due ragioni: la prima è che Bird è Franz Rogowski, un attore di cui non perdo una pellicola da quando mi ha folgorata nel film di Giacomo Abbruzzese Disco Boy, una presenza così forte da fare sempre la differenza, come ha dimostrato nei film Freaks out di Gabriele Mainetti, Passages di Ira Sachs e Lubo di Giorgio Diritti. L’altra ragione è che di questa regista sapevo solo una cosa (poi ne ho scoperte molte altre grazie alla Cineteca di Bologna, compresi i tre premi della giuria vinti a Cannes): ha diretto la serie tv Big Little Lies e tanto mi bastava.
Bailey è ancora una bambina con tutte le sue insicurezze ma è già grande, costretta a crescere in fretta perché è la maggiore dei quattro figli di sua madre. Nessuno si interessa a lei, nessuno la rassicura e la abbraccia quando ha le sue prime mestruazioni: non il padre poco più che adolescente con cui convive e che sta pensando solo a preparare il matrimonio con la sua nuova compagna e a fare soldi con la bava di un rospo che vende come allucinogeno. Non sua madre, che vive con un uomo violento e con le due sorelline e il fratellino. Bailey è sola e sempre in fuga alla ricerca di qualcosa che non sa, e nel deserto di presenze e di affetti in cui vive l’unica consolazione sono gli sguardi degli animali, un gabbiano, un corvo, i cavalli, il suo cane, loro la vedono e la capiscono e con loro lei si concede la tenerezza che non conosce.
Finché in un’alba livida, dopo una notte passata a dormire tra le erbe alte di un campo, le compare davanti un uomo strano che ha il viso scavato e la cicatrice del labbro leporino di Franz Rogowski. È Bird che si aggira nel quartiere cercando le tracce della sua infanzia abbandonata e dei suoi genitori perduti. L’uomo e la ragazzina si guardano e capiscono senza parlare che sono entrambi stranieri in un mondo violento che urla e si ammazza a calci e pugni intorno a loro.
Bird ha lo sguardo indecifrabile che hanno gli uccelli che vedono tutto da distanze infinite e come un uccello è capace di appollaiarsi immobile sulla cima di un tetto, su un comignolo, su una staccionata. Fin dalla sua entrata in scena Bird mi ha ricordato l’angelo de Il cielo sopra Berlino, quando Bruno Ganz osserva con compassione dall’alto di un palazzo le umane sofferenze. Quell’angelo collega degli “angeli” registi cui Wim Wenders dedicò il suo capolavoro: Truffaut, Ozu e Tarkovskij, gli angeli che ancora vegliano su di noi.
Non racconto altro della storia portata sullo schermo da Andrea Arnold con la cifra registica che contraddistingue il suo cinema e che una volta le ha fatto dire: «Sono ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono». Segnalo due sue scelte: la tecnica di ripresa con la camera a mano e l’alternanza di primi piani strettissimi e campi lunghi in cui c’è il respiro della natura, il silenzio della terra, il cielo col volo degli uccelli. L’uso della camera a mano, che solitamente mi disturba, in questo film è l’unica tecnica di ripresa possibile, insegue l’ansia di Bailey, la fragilità di Bird, la violenza insensata e banale che li circonda. L’altra scelta della regista è la colonna sonora di musica elettronica travolgente firmata dal musicista britannico Burial, di cui è protagonista, spesso cantando, l’attore irlandese Barry Keoghan che è il padre di Bailey, Bug, già notato nel film Gli spiriti dell’isola.
Ho evocato Il cielo sopra Berlino: perché Bird mi sembra in qualche modo proporci una rilettura fantastica di ciò che quella pellicola ci rivelava, raccontandoci le stesse umane vicissitudini, le stesse fragilità e insoddisfazioni che non sono cambiate dopo quasi quarant’anni e che ancora chiedono di essere consolate e guarite. E perché lo sguardo pieno di compassione di Rogowski che sorride alla piccola grande Bailey è lo stesso sguardo con cui l’angelo Bruno Ganz ancora ci rassicura dall’alto del tetto di un palazzo di Berlino.


