Flavio Fusi
La scomparsa di un mito

Lettera a Mario

Ricordo di Mario Vargas Llosa, un grandissimo scrittore per il quale vivere equivaleva a scrivere. Come per il suo amico-nemico Gabo

Caro Varguitas,
ti avrei riconosciuto ovunque, con quella faccia di nobile hidalgo, con quella impeccabile eleganza britannica, il passo trattenuto e deciso con cui attraversavi la 55esima strada, all’angolo con Avenue of Americas.  Eri allora in attesa di quel Nobel che non arrivava mai, e ti piacque scambiare qualche parola («in inglese? Meglio in spagnolo…») con quell’italiano timido, sbucato dal nulla, che aveva letto tutte le tue storie. Eri allora, come sei sempre stato, un incorreggibile vanitoso: confesso a me stesso che sarei stato dalla parte di Gabo, quando gli ficcasti quel pugno a tradimento, davanti a tutta quella gente. Confesso che allora non ti avrei scelto come compagno di bisboccia, e mai e poi mai come compagno di viaggio.

Eppure Varguitas,
sfogliare un tuo libro – un tuo libro qualunque – era come entrare nella magia, mettersi ai remi di una barchetta o di un galeone e trascinato in una splendida tempesta. «Il più europeo degli scrittori latinoamericani, il più latinoamericano degli scrittori europei». Balle! Non c’è un rigo di Europa nel tuo castello di carte. È sempre il tuo terribile, splendido, infelice Continente che parla. Per questo la tua vita è stata tutta un duello con Gabo: il maestro e l’allievo reticente, la sinistra e la destra, Londra e Città del Messico, con Barcellona terra di mezzo, armistiziale. Lo stesso demone, lo stesso amore. Comprai Quien Matò a Palomino Molero? a una bancarella nei giardini di fronte al Prado, in una estate lontana. Era, quella storia, il fratello oscuro, il doppio tenebroso, di Cronaca di una morte annunciata.  Così come La casa verde era l’epopea realista, l’affresco amazzonico, il controcanto necessario al favoloso affresco caraibico di Macondo.

Caro Varguitas,
che idea fu quella di candidarti alla presidenza? Volevi Lima trasformata in Londra, sognavi l’Europa sulle sponde del Rio Rimac, e quel macaco di Fujimori ti fece a pezzi, anche con la svergognata stampella della sinistra di casa. Il trafficante orientale, il piccolo verme con gli occhi di ghiaccio si prese il tuo sfortunato Paese e lo consegnò al massacro. Come politico, Varguitas, eri un disastro: cieco, e così lontano dalla tua saggezza di scrittore. Ricordi? lo avevi scritto: “en què momento se Jodiò el Perù….”. è Santiago Zavala, Zavalita, il tuo alter ego degli anni Settanta, che si interroga di fronte a una birra, dentro le ombre sfuggenti della Catedral. «Quando si è fottuto, il Perù?».

Caro Varguitas
hai ricevuto la notizia del Nobel all’alba, nel tuo appartamento sopra Central Park. Ricco, elegante, uomo di mondo. Il telefono impazzito, il caffè che si fredda nella tazzina, tu moglie – ah, tua moglie! – trasformata in segretaria e centralinista. L’anima che vola sui cieli di Manhattan, l’orgoglio di una impresa finalmente compiuta. Tra tanti telegrammi, quello lungamente atteso: da Città del Messico, si congratula il vecchio Gabo. Il duello è finalmente concluso, i duellanti possono deporre le spade. Per me quel giorno fu come un risarcimento, un sollievo. Ma troppo tardi, ormai, per esultare: da tempo non ero più quel ragazzo affannato, quell’esordiente della vita che aveva letto con il batticuore le tue prime storie.

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