Danilo Maestosi
Al Museo Bilotti di Roma

Le forme della morte

Ha un tema solo apparentemente inquietante, la bella mostra che affronta i colori e le variazioni della morte nell'arte contemporanea. Da Leoncillo a Stefano Di Stasio, da Alessandra Tesi a Benedetta Bonichi

Strano ma non troppo che la mostra romana che più sento di consigliare in questo scorcio di stagione sia un’esposizione piccola piccola. E a ingresso gratuito. Tra Mito e Sacro, appuntamento appena inaugurato e in cartellone fino al 14 settembre. Una mostra senza numeri da record da mettere all’occhiello come quella sul futurismo alla Galleria nazionale di Valle Giulia. Senza nomi extralarge in vetrina che bastano a chiamar folla come quella su Caravaggio a palazzo Barberini.

A darle rilievo imperdibile d’attualità, una doppia scelta di campo. L’idea di indirizzare sguardo e riflessioni sul senso più profondo della vita umana, mai così in bilico sull’orlo di un precipizio, intaccato da guerre, massacri, svolte politiche autoritarie e settarie, mutazioni tecnologiche e sociali che sembrano senza ritorno. E in secondo luogo la decisione di restituire centralità alla morte, realtà ineludibile ma sempre più mistificata e rimossa da un mondo di egoismi sdoganati che camuffa l’orrore di invecchiare dietro altre false paure. Temi che la scomparsa di papa Francesco, avvenuta mentre la mostra aveva iniziato il suo cammino, rende ancora più incalzanti.

A reggere il peso di questa sfida meno di trenta d opere, un’offerta da galleria privata, anche se il luogo che la ospita – l‘Arancera di villa Borghese – alza da quasi venti anni l’insegna di museo Bilotti, scrigno di una preziosa donazione privata. E anche se tutti i lavori, fanno parte della corposa raccolta di arte moderna e contemporanea del Campidoglio, in parte esposta nella galleria comunale di via Crispi, in maggioranza custodita nei sotterranei di un altro museo municipale, il Macro di via Nizza.

Tesori da magazzino recuperati come tessere risaldate insieme per una carrellata espositiva di straordinario impatto. Che sembra tarata su un voluto richiamo al turismo pasquale. Ma sigilla, invece, un invito laico, esteso anche al mondo cattolico impegnato a declinare al presente una nuova iconografia. La proposta di immergersi senza vincoli nel mistero e nelle profondità dell’invisibile che l’arte autentica insegue da sempre. Restituendo ribalta alla spiritualità che nella storia dell’arte, dalle origini ad oggi, è faro visionario d’identità, luce profetica che può indirizzare la ricerca interiore di atei, dubbiosi e credenti di ogni culto.

Lo precisano con orgoglio di squadra al taglio del nastro i tre curatori della mostra, Antonia Rita Arconti, Claudio Crescentini e Ileana Pansino. E lo ripete Federica Pirani che, passata da qualche mese a dirigere il settore delle ville storiche del Comune, ne gestisce il rilancio con una intensa e mirata attività espositiva, abbinata alla valorizzazione delle collezioni capitoline d’arte contemporanea, che in passato ha gestito e sono rimaste sotto la sua supervisione.

La prima cosa che colpisce il visitatore e la notevole qualità di tutti i lavori selezionati e riorganizzati in passerella, senza forzature, nella tessitura di una narrazione a temi che ne esalta e ne aggiorna gli echi e il significato. Che meraviglia quelle due sculture firmate da Leoncillo nel 1964 (nella foto accanto) e sistemate nella sala d’ingresso dell’antica Arancera Borghese… Due busti, squarciati e trattati con viraggi di smalti diversi, nero e rosso per evocare il supplizio di San Sebastiano, che urlano il loro dolore alla nicchia gioiosa di pietre del Ninfeo seicentesco che fa da fondale alle spalle. Il martirio condensato da uno scontro tra immaginario sacro e profano che sfonda la barriera del tempo e del vetro che protegge la nicchia. Capolavori che sembrano nati qui e qui comunque rinascono. Resuscitati da un colpo d’ala di regia e dalla complicità altrettanto decisiva del nostro sguardo. Vibrazioni moltiplicate poi da altre opere che fanno da specchio sulla parete di fronte e allargano il perimetro dei possibili incontri della spiritualità creativa con altri stili altri linguaggi, altre invenzioni, altre fughe di artisti alle prese con questo scorcio impazzito di Terzo Millennio. Messi a confronto con talentuosi colleghi di generazioni precedenti che ne hanno anticipato nel secondo Novecento le rotte.

Che dialogo fascinoso imbastisce l’Angelo datato 1954 di Corrado Cagli, pennellate di colori a olio su riccioli di carta incollati alla tela, con l’impasto di cera colata da candelieri votivi reinventato a pittura da Alessandro Piangiamore, dieci anni fa, per resuscitare una penombra di fervore e speranza e rendere omaggio alla bellezza delle chiese di Roma. E che singolari affinità d’intenzioni rivela il trattamento che Sidival Fila, un frate pittore oggi molto quotato, riserva alla trama cromatica di un antico stendardo araldico.

Non provo grande passione per quel versante dell’arte concettuale che invade e ibrida di luci al neon il dominio e le sintesi della scrittura poetica, ma il dosato gioco di assonanze di tempi, stili e intenzioni costruito dai curatori, restituisce coinvolgimento ed emozioni anche alle tre grandi tavole scure degradanti dal grigio al nero sulle quali Alessandro Valeri, fotografo e apprezzato manipolatore di luci, abbina le voci life e milk (vita e latte) al suono tre parole diverse che declinano il viaggio di una vita: Amore, rivoluzione, morte.

Pensate quanto è appagante avvicinarci così alla storia dell’arte, non solo – come fa la critica più in voga – attraverso gli scarti di discontinuità veri o presunti delle avanguardie, ma ricucendo il tessuto connettivo di presenze, contatti, scambi influenze, viaggi, andirivieni nel tempo che è l’habitat di chi pratica l’arte come passione e mestiere. E farlo usando e mescolando opere che, finite nei magazzini, sembravano aver esaurito il loro ciclo vitale. L’arte che con qualche ritocco di copione e cornice si rigenera in spettacolo da commedia dell’arte. Il sipario congelato dalle abitudini e dai precetti da museo che si rialza su un nuovo stupore.

Colpi da buon teatro insomma. Effetto amplificato nelle sale successive che ci immergono nel repertorio trasfigurato della figurazione. attraversando il crinale del mito e della tragedia classica. Ecco il groviglio di conflitti e catastrofi umane dell’Orestea reinterpretato da Paola Gandolfi in un gigantesco fondale di corpi femminili frantumati o capovolti. Ecco la seduzione e la bellezza da archetipo popolare della Venere di Botticelli che ci esplode davanti in una sequenza di sagome lignee dorate incise da Mario Ceroli (nella foto accanto) e sconsacrate dalla citazione di un’eroina usa e getta di un film di 007. Un salto di generazioni e di stile verso il neorealismo magico fine Novecento ed ecco due tele dipinte da Stefano Di Stasio, 78 anni, e Salvatore Pulvirenti, 68 anni, dischiuderci davanti templi e atmosfere sospese tra raccoglimento e mistero.

Il registro del sacro è speso in questa mostra anche per restituire capacità chimeriche alla fotografia, linguaggio che la pratica dilagante dei selfie ha inflazionato e inchiodato a testimoniare solo il qui e ora della nostra presenza. È la vertigine in cui ci sprofonda la grande istallazione di Alessandra Tesi, una vetrata della cattedrale di Notre Dame che sembra ruotarci attorno come un’astronave aliena o l’astro di una remota galassia. È la sequenza di lastre, sulle quali Andrea Fogli ha inciso e dato sembianze in dissolvenza di un fantasma generato da una miracolosa ibridazione biologica, al profilo di Maria.

Ma è il passaggio al secondo piano ad assegnare valore di unicità a questa mostra, guidandoci nel labirinto di significati e contrasti alternati della morte come terreno d’ispirazione primario affidato alla fragile forza degli artisti che si ribellano alla sua quasi totale scomparsa di scena. Si parte dalla morte di Cristo, la tragedia che più avvicina la Terra al Cielo, declinata a contrasto da due autori di generazioni diverse: la sinfonia di corpi dolenti di una Deposizione che Pericle Fazzini imprime con grande pudore in un bassorilevo di bronzo dell’immediato dopoguerra e una sorprendente Crocifissione dipinta nel 1998 da Bruno Ceccobelli (nella foto accanto al titolo), i piedi del Cristo appeso che sbucano in primo piano ad appoggiare il corpo in terra, quasi il primo passo di un astronauta atterrato su un pianeta del Cosmo.

E si arriva allo spettacolo senza diversivi della morte in sé, che non dà scampo e ci preannuncia un destino inesorabile da cimitero. Con una presenza così immanente e ingombrante che è impossibile rimuovere e travestire. Non resta che ascoltarne la voce o il silenzio con cui si esprime. E magari scoprire che non ha nulla di tragico o di maligno da dirci. Solo una impotenza non troppo diversa dalla nostra. È quello che sembra comunicarci lo scheletro inginocchiato e in preghiera, datato 1998, fuso nel bronzo da Mark Quinn, uno scultore statunitense che batte da primattore i sentieri dell’iperrealismo. Che sta facendo, chi sta invocando? Sta Aspettando Godot, ci risponde il titolo scelto dall’autore? Un salto nell’assurdo, uno sberleffo che quasi ci strappa un sorriso, proprio come farebbero i clown di Godot.

Poco più in là un’altra visione folgorante, Firmata da una sperimentatrice di talento: Benedetta Bonichi (nella foto accanto). La gigantografia di un banchetto di nozze. Sagome che innalzano calici e fanno festa. Ma sono scheletri opachi, ritagliati da una radiografia. Si brinda a un verdetto grottesco, Non affanniamoci invano, la morte siamo noi. Nella parete di fronte un altro montaggio fotografico della stessa autrice ci lancia un messaggio meno astratto e sicuramente più aggiornato. Ritrae un dollaro americano, nell’ovale al centro uno scheletro con l’aureola. Oh my God: è una divinità della morte, quel nume sconosciuto a cui tutti puntiamo in adorazione.

Sono chicche che provengono dagli scantinati del Macro, cimeli acquisiti o donati a conclusione delle mostre romane dedicate ai loro autori che quel museo, rimesso a nuovo e ampliato, ha ospitato. Che spreco tenerli lì a prender muffa in compagnia ad altre gemme, in un archivio che le varie direzioni che si sono alternate in quel grande contenitore non hanno saputo o voluto rimettere in circolazione.

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