A proposito di "Amicizie"
Gli amici di Agamben
Nel suo nuovo libro il filosofo Giorgio Agamben cerca di tracciare il profilo dei rapporti amichevoli. E lo fa raccontando i suoi affetti. Da Elsa Morante a Pierre Klossowsky
È più semplice dire cosa è amore, dando una definizione del sintagma ti amo, piuttosto che dire cosa è amicizia e spiegare l’espressione «ti sono amico». Il legame amicale spesso appare come un mistero insondabile, imperscrutabile ai più, ma alcuni riescono a penetrarvi e coglierne il senso profondo e tra questi il filosofo e saggista Giorgio Agamben (tra le ultime pubblicazioni La mente sgombra. Profanazioni. Nudità. Il fuoco e il racconto, 2023) che in Amicizie (Einaudi, pp. 136, € 15,00) presenta diciassette brevi ritratti dei suoi affetti più cari e, per mezzo di essi, mostra come ogni rapporto autentico si fondi certo sulla reciprocità ma, soprattutto, sulla meraviglia per una o alcune peculiarità delle persone alle quali ci si lega.
Di Elsa Morante, «selvaggiamente seria», l’autore ha apprezzato il suo senso della realtà e alla scrittrice era tanto profondamente legato da sentirne forte la mancanza nelle occasioni di lontananza: «Cara Elsa, […] Ho molta nostalgia di rivederti. Ogni volta che vado fuori, una delle persone che mi mancano di più sei tu. In realtà tutto ciò è perfettamente naturale, perché tu sei la persona più straordinaria che io conosca, anche se quando sto con te finisco talvolta col non accorgermene».

Di Patrizia Cavalli ricorda il dono dell’attenzione, «quell’attenzione di cui sono capaci innanzitutto gli animali e che qualcuno ha definito una forma di preghiera».
Amicizia rara, una di quelle che non risentono della differenza di età né di autorevolezza, sebbene ne rappresentino gli elementi caratterizzanti, è quella con Pierre Klossowski: «Io non avevo che ventitré anni e Pierre sessanta. […] Mi piacerebbe definire il punto di convergenza – o, più esattamente, il punto di fuga – in cui i nostri pensieri riuscivano a incontrarsi».
Dal testo emerge come l’intensità di un rapporto resti tale anche quando le occasioni di incontro sono poche: Alain Cuny, nel giorno del matrimonio di Agamben, usò un’espressione che l’autore non riporta ma che ricorda come «la cosa più bella che si possa dire di un amico».
Amicizia è anche scrutare i tratti psicologici dei propri affetti, come nel caso della già citata Cavalli: «Perché Patrizia conosceva così bene l’amore? Perché la sua poesia è da cima a fondo un mare amoroso? Perché non si amava, perché sapeva che è per via della nostra impossibilità di amare che siamo condannati all’amore».
Per ogni ritratto, Agamben si serve delle lettere, dei suoi quaderni, delle cartoline e delle fotografie e nella sua descrizione non tralascia nulla, nemmeno il momento della morte: il fazzoletto celeste legato sotto al mento di Morante, le sopracciglia leggermente corrucciate di Caproni, quasi come se avesse dovuto riaprire gli occhi da un momento all’altro. Sino all’imago della persona cara che appare in sogno, come quella di Sonia Alvarez: «Nessun altro amico ho sognato con tanta intensità e vicinanza».
Alla luce dei suoi affetti, l’autore ritiene che quanto più un amico è diverso da noi, tanto più la sua amicizia è in grado di guarirci dal male di vivere e, in virtù di ciò, richiama un passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele, dove il filosofo greco definisce un amico un heteros autos, un altro da sé stesso. Secondo Agamben, non si tratta di un banale alter ego, un altro io, quanto di una «alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e la deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


