Diario di una spettatrice
Uomini in 3D
“Mickey 17”, il nuovo film di Bong Joon-ho, non raggiunge il livello del precedente "Parasite": è una storia fantascientifica un po' ingarbugliata ma terribilmente vicina all'attualità
Com’è morire? Glielo chiedono continuamente, gli altri. Mickey Barnes farfuglia, non lo sa, è morto e rinato un sacco di volte, sa solo che la paura di morire non se ne va, anche se sa che ogni sua vita è a termine per contratto, il contratto da “expendable”, sacrificabile, uno che può vivere solo dieci minuti o anni, dipende dai test da cavia che gli impongono per salvare gli altri, gli umani che hanno una sola vita. Così quando inizia questa storia, la storia raccontata dal nuovo film del regista coreano Bong Joon-ho, Mickey il sacrificabile è arrivato al suo clone n. 17.
Infatti il film si intitola Mickey 17, anche se il libro cui si ispira è Mickey 7, chissà perché. A farlo rinascere esattamente uguale a sé stesso, età, faccia, muscoli, sogni e ricordi, è una stampante 3D che sforna uomini e non solo organi. Ma com’è morire? La domanda dovrebbe essere rovesciata: com’è piuttosto vivere sapendo che si verrà sacrificati per il “bene comune”, per sperimentare un nuovo farmaco, per verificare la commestibilità di una carne artificiale o la resistenza del corpo umano nell’atmosfera letale di un pianeta sconosciuto.
Pianeta ghiacciato Niflheim, anno 2054. La Terra è ormai perduta, si intuisce che guerre e cambiamenti climatici l’hanno resa inospitale, chi può sale su un’astronave e scappa cercando altrove un’altra vita. Fin dalle prime scene entriamo in una profezia distopica, ma non così lontana e inverosimile rispetto alla realtà che stiamo vivendo. La gente si mette in fila per ricominciare in un’altra dimensione e con un altro mestiere e a gestire questa immensa agenzia di collocamento interstellare destinata a realizzare un progetto di rinascita del genere umano, a metà tra il suprematismo bianco di Trump e la teocrazia degli ayatollah, è un personaggio comico e grottesco, crudele e paradossale come sono i protagonisti dei film di Bong Joon-ho: Kenneth Marshall, un politico fallito, un megalomane che si crede l’imperatore delle galassie, insomma un Elon Musk senza il berretto da baseball. Accanto a lui c’è la moglie Qwen, a lei interessano solo le salse (sono i bravissimi Mark Ruffalo e Toni Collette).
Incontriamo Mickey 17 intrappolato in un crepaccio ghiacciato di Niflheim, ha lo sguardo smarrito di Robert Pattinson (per me eternamente Cedric Diggory in Harry Potter e il calice di fuoco e il vampiro della saga di Twilight) ed è convinto di dover morire per reincarnarsi nel suo clone n. 18. Ma a sparigliare le carte entrano in scena i nativi che popolano quel pianeta, giganteschi tardigradi in apparenza privi di capacità cognitive, poveri “striscianti” nascosti nel sottosuolo che invece empatizzano con lui e lo salvano. Solo che dentro la base degli umani invasori la stampante biologica ha già sfornato Mickey 18, aggressivo, determinato, ribelle, l’esatto opposto dell’arrendevole clone n. 17 che dice sempre di sì.
È l’imprevisto che inceppa il sistema. Perché i “multipli” sono fuorilegge e uno dei due deve morire.
Non racconterò cosa succede, in quali complicazioni si ingarbuglia la storia di Mickey Barnes sdoppiato in 17 e 18 e degli altri protagonisti del film, a cominciare dall’amata Nasha che gli è stata accanto in tutte le sue clonazioni. La pellicola riproduce in 137 minuti molte situazioni déjà vu, con quegli effetti speciali che evocano inevitabilmente la mitica saga di Star Wars, però senza la sorpresa che poteva suscitare la fantascienza reinventata da George Lucas mezzo secolo fa.
Per Bong Joon-ho Mickey 17 è il ritorno a un genere già frequentato in passato. Niente se non la cifra del grottesco richiama il suo Parasite, capolavoro in bilico tra commedia e thriller che vinse a mani basse nel 2019 la Palma d’oro e nel 2020 quattro Oscar (esattamente come ha fatto quest’anno Anora, ma le due pellicole giocano in campionati diversi e del film di Sean Baker tra un paio d’anni non resterà traccia).
Alla fine la storia del giovane Mickey il cui lavoro è morire per salvare il genere umano, che non dovrebbe avere paura della fine “tanto ti ristampano domani” e che invece della morte ha paura come tutti noi, resta aggrappata allo spettatore nonostante i limiti evidenti della pellicola. Perché lo sguardo indifeso del clone n. 17 che si arrende al destino deciso da altri, ci costringe a ricordare tutti i sacrificabili che vorremmo dimenticare nel maledetto presente dei nostri giorni.


