L'ultima puntata di "Due ragazzi inquieti"
La visione comune
«Il campo in cui i pensieri di entrambi convergono s’è un po’ allargato, nel frattempo, non contempla più solo il fatto in sé, comincia a disegnare un contorno. Sono, o saranno presto, entrambi architetti».
Riassunto delle puntate precedenti. Sara e Davide, due studenti universitari di architettura, si vedono in un caffè di piazza Dante a Roma. Hanno appuntamento, lei ha da comunicargli qualcosa d’importante che riguarda entrambi. La reazione di Davide, immediata ed emotiva, è contraria alla decisione che Sara sembra aver già preso. Si separano senza litigare, ma in disaccordo. Lei è una ragazza di buona famiglia – casa ai Parioli, padre avvocato, madre con qualche quarto di nobiltà nel sangue, i due conducono vite separate – però inquieta, con un passato sentimentale difficile: una lunga storia con un quarantenne padre di famiglia, di cui fatica a liberarsi, un’intensa relazione lesbica interrotta con difficoltà. Lui invece è un provinciale, viene dalla campagna dell’alto Lazio, e ha anche lui un rapporto problematico con la famiglia contadina da cui proviene, che l’ha fatto studiare, ma l’ha escluso dall’attività e dalle proprietà familiari, che andranno in esclusiva a suo fratello maggiore, Giuseppe, in base alla regola successoria del ‘maggiorasco’. Si sono conosciuti a un esame di architettura che ambedue hanno superato brillantemente. Da qualche tempo stanno insieme e questo legame leggero, da studenti, pare aver dato a entrambi un po’ di stabilità. Dopo l’incontro di piazza Dante, meditano separatamente sulla situazione e sul da farsi. Devono vedersi la sera a cena.
* * *
Mentre Sara svolge questi pensieri, Davide ha preso l’autobus che lo porta al lavoro, il magazzino sulla Tuscolana, dove deve prendere servizio alle tredici. Quel posto di casse e imballi da trasbordare. Mentre se ne occupa, trafficando col suo muletto, pensa. Perché non farlo, perché Sara dovrebbe non volerlo? E’ ovvio che per lui, se riuscisse a convincerla, vi sarebbero dei vantaggi. Si consoliderebbe il legame con Sara. Coi suoi soldi, il suo ambiente sociale. Se non con la famiglia di lei, coi soldi e l’ambiente sociale della famiglia. Quest’aspetto non può non entrare nel quadro. Non è l’unica cosa, forse neppure la principale, ma conta eccome. Davide ci pensa, anche lui disegna un futuro.
Sta bene con Sara, quella ragazza un po’ stramba, coi suoi vizi e i suoi soldi; le sue debolezze ma anche un certo coraggio; le sue spavalderie, le sue rabbie impotenti, le sue fragilità. Un mix che gli piace. E’ poco che stanno insieme, hanno appena ventidue anni, provenienze tanto diverse e progetti ben vaghi per il futuro, tutte cose che non contemplerebbero certo…
Il capoturno gli ordina di andare a scaricare un TIR appena arrivato dal Brennero:
“Lo Scania in fondo al piazzale. Col container della Maersk. Ricambi Mercedes veicoli industriali. Vanno messi sugli scaffali della fila F, posizioni dalla 7 alla 9,” gli grida. “Lì trovi Duccio, che spunta le casse dal packing-list e ti indica dove piazzarle.”
Davide manovra il muletto, s’avvia in fondo al piazzale, individua il TIR col trattore Scania tra i cinque o sei arrivi pomeridiani allineati nell’area di transito. Il camionista, un polacco – il TIR ha la targa polacca – ha già aperto il container. In un inglese ruvido e sconnesso, gli comunica che va vuotato in non più di due ore, poi il gruista deve rimettere il container vuoto sulla piattina e lui ripartire per Varsavia. Ora va a farsi un paio d’ore di sonno in cabina, intende muoversi al più tardi alle sei, domattina vuol essere di nuovo al Brennero…
Metterci di mezzo una cosa del genere adesso a chiunque parrebbe un azzardo… ma non l’hanno mica cercato loro, l’azzardo è arrivato, è comparso da solo nelle loro vite, perché non coglierlo? Non l’ha sentito dire più di una volta anche a Sara: ‘prendi dei rischi, sii più sfacciato… se non a vent’anni, quando?’ E’ un suo mantra. E, quanto a prendere rischi, questo non è il modo peggiore di farlo…
“Sta’ tranquillo,” risponde Davide al polacco, in un inglese molto migliore del suo. “Faccio in fretta, per le quattro ho bell’e finito.” E poi, a parte: “Figurati,” aggiunge tra sé. “Io prima faccio, più son contento. Alle sei stacco. Passo a casa, mi faccio una doccia, mi cambio e alle otto e mezza sono a cena con Sara, vediamo un po’ che succede…”
Dunque i pensieri di Sara e Davide, partiti da posizioni molto distanti, a un certo punto convergono. Trovano una sorta di attrattore comune e s’incrociano su scenari simili. Nel pomeriggio, grossomodo mentre lei rientra a casa, nell’attico di via di Villa Grazioli, e telefona a un ristorante di Porta Pia per prenotare un tavolo; e lui, staccato dal turno – un sacco di roba da scaricare, oltre al container del polacco; non ha potuto ragionare tranquillo, però adesso, seduto sull’autobus che lo riporta al Tiburtino, ha un po’ di tempo per pensare – si dirige verso il suo monocamera, una doccia calda, uno shampoo e un cambio pulito.
Il campo in cui i pensieri di entrambi convergono s’è un po’ allargato, nel frattempo, non contempla più solo il fatto in sé, comincia a disegnare un contorno. Sono, o saranno presto, entrambi architetti. Potranno avviarsi alla professione, a seconda degli indirizzi scelti. Sara si dice che i suoi genitori conoscono alcuni dei titolari degli studi più rinomati: i Valle, i Busiri Vici, gli Aymonino, eccetera; potrebbero orientarsi verso qualcuno di questi, magari separatamente, farsi un po’ le ossa e poi, perché no, aprire uno studio tutto loro.
Uno scenario abbastanza simile a quello che traccia Davide, quando si dice che con le conoscenze dei genitori di Sara potrà muoversi in un ambiente cui altrimenti mai avrebbe avuto accesso, il giro degli studi che contano, avviare una carriera, perché no? C’è un campo comune da coltivare, nel lavoro, una prospettiva da costruire…
Insomma, fanno progetti. Le posizioni sono ormai molto ravvicinate quando alle otto e mezza Davide entra nel ristorantino toscano di via Ancona dove lei ha prenotato un tavolo. E Sara è già lì, è arrivata un po’ in anticipo, è seduta nella saletta interna, quella più riservata e tranquilla. Il ristorante è un tantino al di sopra del loro standard abituale. Infatti, talvolta Davide vuol essere lui ad offrire, magari una volta su tre, una volta su quattro. E allora l’assicella delle trattorie è fissata su un livello che anche lui, di quando in quando, possa permettersi. Ma stavolta, in vista di una serata abbastanza speciale, Sara ha fatto uno strappo alla regola e prenotato un ristorante vero, un po’ più su, niente di lussuoso ma decisamente fuori portata per le tasche di Davide.
“Hai avuto una giornata pesante, al lavoro?”
“Insomma. Sì, il solito. C’erano parecchi camion da scaricare.”
“Sei stato occupato, allora. Non hai avuto tempo per pensare…”
“Ma sì che l’ho avuto, eccome. E’ tutto il giorno che ci penso.”
“E…?”
“Non ho cambiato idea, sai. Quel che ho detto stamattina.”
“Sei sicuro?”
“Arcisicuro.”
“Non fare lo sbruffone, Davide. Non mi piacciono le spacconate. E tu sei fuori ruolo.”
“Non è una spacconata… Pure tu! Che domande, sicuro!… Quanto si può essere sicuri, di una cosa del genere? Una lotteria… Beh, però: quanto si può esserlo, io lo sono. Secondo me dovremmo farlo.”
“Ci hai pensato bene?”
“Te l’ho detto.”
“Non hai avuto abbastanza tempo. Non l’hai fatto.”
“Vuoi le prove? Beh, eccotele. Perché no? Io con te sto bene; e forse sono presuntuoso, ma penso che tu stia bene con me. In questo ci siamo trovati. Ci gioviamo a vicenda. Io stavo peggio, prima. E mi sa pure tu. E’ da un po’ che ci diamo una mano. Già una buona base di partenza, ti pare? Poi ci è venuto addosso questo. Non l’abbiamo cercato, però è successo. E allora, perché no? Tra pochi mesi saremo laureati. Forse prima che accada o forse subito dopo, chissà… Bah… faremo i conti e vedremo. Comunque, presto inizieremo a lavorare. Quella parte di percorso è abbastanza chiara. Possiamo farne almeno un pezzetto insieme. E pure se proveniamo da mondi diversi, ci unisce il lavoro. Quanto alla casa… cerchiamoci un posto dove stare. Tu, credo, problemi economici non ne hai…”
“Ma guarda… Grossomodo, gli stessi pensieri che ho fatto io…”
“Lo vedi? Abbiamo una visione comune…”
“Al fatto del legame, ci hai pensato? E’ un limite, e uno che dura… Te la senti?”
“Mah, guarda, c’è del buono, in un limite, ti obbliga a misurarti. Quando ne incontri uno… beh, nulla vale quanto l’esplorazione di quello che c’è intorno. Conta molto più che scansarlo… E, insomma, nel caso nostro non è poi tanto male. Ci poteva andar peggio. Non liberiamocene. Facciamolo.”
“Proprio gli stessi pensieri. In qualcosa ci somigliamo…”
“Non mi pare. Non ci somigliamo affatto.”
“Forse un po’ sì. Per vie diverse, siamo stati portati a pensarla allo stesso modo.”
“E’ la situazione.”
“Hai fatto piani?”
“Non più di quelli che hai fatto tu. Ma possiamo farli insieme.”
“Dove vorresti stare?”
“Per me, va bene tutto…”
“Non da te. Vediamo di procurarci qualcosa di meglio. Ti secca, se ci penso io?”
“Perché dovrebbe seccarmi…”
“Inutile rendersi la vita più scomoda del necessario, ti pare? A casa, coi miei, neanche a parlarne. Troveremo un altro posto.”
“D’accordo.”
“I soldi non sono un problema, se non lo sono per te.”
“Certo che no.”
“Potremmo anche andare in giro a cercar casa. Come sposini…”
“Non metterla così. Non mi piace. E neanche a te.”
“No. Ma potrei chiedere ai miei uno dei tanti posti che hanno in città. Così ci risparmieremmo d’andare in giro in quel modo.”
“Va bene… Allora, hai cambiato idea? Rispetto a stamattina, dico.”
“Come vedi… sei stato convincente.”
“Chi l’avrebbe detto. Non mi era parso, stamane… Intendi dirlo ai tuoi?”
“Che c’entrano? Dovrò dirglielo, certo, specie se gli chiediamo casa. Ma non contano, non me ne importa un accidente. E neanche a loro.”
“Bene.”
“Devono solo darci quel che vogliamo. Non gliene fregherà molto. Sappilo. Voglio rassicurarti, su questo. Ma faranno il loro dovere. Avremo quel che ci serve, su questo ci puoi contare.”
“Bene.”
“Bene.”
Poi ordinano la cena. La parte essenziale della conversazione è stata breve e s’è svolta durante gli aperitivi, due bollicine che il cameriere ha portato non appena seduti, assieme ai menu. Le parole importanti, quindi, hanno fatto solo da introduzione al resto della serata, cui non resta che svolgere il tema in modo ormai quasi accademico, rituale. Il cameriere ricompare a prendere l’ordinazione. Pici all’aglione e ossobuco. In quel ristorante l’ossobuco è piuttosto buono. Anche il vino: vernaccia di San Gimignano, di una cantina che si trova con difficoltà nelle enoteche ma lì, in quella trattoria senese, è il vino della casa. Mentre mangiano, parlano e parlano e il quadro s’allarga. Anche se, giocoforza, si fa più sfocato e più seriale. Non solo il fatto e il suo contorno prossimo – la casa, il lavoro, eccetera – ma anche quello un po’ più lontano: un ménage di coppia, la convivenza, le incombenze materiali del nuovo in arrivo… E poi una visione ancor più lontana – e perciò, grazie a dio, ancor più sfocata, pressoché indistinta – un’educazione, una scuola. Molto lontano, ma ineluttabile. Quel che spaventa, in tutto questo, non è forse la responsabilità, ma la noia. La percezione di déjà-vu. Il pensiero di percorrere un tracciato già noto, seguire piste battute, applicare schemi. Fare dell’accademia, appunto. Allora si rifugiano nel futuro più immediato, quello consueto e semplice di due studenti. Basta piani a distanza. Gittata più corta. Università, normalità, prossimi esami. La tesi che ambedue hanno chiesto, in due dipartimenti differenti. A poco a poco si distaccano dallo scenario che hanno sommariamente tracciato attorno al fatto. La loro vita corrente di ventenni, disordinata e libera, si riprende un po’ della scena. Per dessert, ordinano i cantucci della casa e il suo vin santo. Nulla di sontuoso. Nessun festeggiamento speciale. Sara chiede il conto. Mentre lo aspettano, quando ormai quell’orizzonte s’è un po’ allontanato, rarefacendosi, è lei a tornarci su. E inciampano in quella parola.
“Insomma, mettiamo su famiglia…”
“Non dirlo…”
“Beh, è quel che facciamo.”
“Ma no. E’ diverso. E’ capitato.”
“Sì.”
“Prendiamola così. Con leggerezza. Non la piantare giù troppo dura.”
“D’accordo. Però è quello.”
“OK, ma non l’abbiamo fatto apposta. E’ diverso il modo.”
“OK, se vuoi vederla così.”
“Nessun piano, nessun obbligo. Non abbiamo fatto niente per provocarlo. Salvo una cosa.”
“D’accordo.”
“D’accordo.”
Però, era quel che stavano facendo. E non c’era modo d’eluderlo. E, per entrambi, era duro affrontarne il significato. Per Sara rimandava a via di Villa Grazioli o, in subordine, a Mario ed Elena. Per Davide, ai Sarni di Vitorchiano. E’ l’esperienza. Per poca che sia, quando uno deve prendere una decisione a cos’altro dovrebbe rifarsi? Nel caso loro, un vuoto fondale di cartapesta, che da dietro le quinte proietta un’ombra davanti a sé, sulla strada che s’accingono a prendere. Dopo che Sara ebbe pagato il conto, lasciando al cameriere una mancia ingenerosa, s’alzarono da tavola e uscirono.
Fuori faceva freddo. La tramontana, col buio, è un vento ostile. Tutt’altra cosa rispetto alla mattina in pieno sole. Si scambiarono un bacio nel gelo. Guance e labbra intirizzite. Poi lei salì sul taxi che aveva fatto chiamare. Diede l’indirizzo di via di Villa Grazioli e l’auto bianca s’avviò lenta lungo Corso d’Italia, col fumo che la bassa temperatura notturna condensava in nuvolette biancastre attaccate al tubo di scappamento. Davide la guardò allontanarsi, s’avviò alla metro. Si disse che, andando di buon passo, forse ce l’avrebbe fatta a non perdere l’ultima corsa per il Tiburtino.
Non si rividero il giorno dopo, all’università. Né si cercarono. Nel pomeriggio Davide lavorò sui fork-lift, nel piazzale di scarico, l’arcinoto andirivieni dai TIR al capannone e dal capannone al piazzale, routine di sempre. Tornò a casa e fece la doccia. La sera scese a comprarsi qualcosa in rosticceria, da scaldare nel microonde.
La mattina dopo Sara entrò in clinica. Quella del suo quartiere, una delle più note case di cura romane intitolata alla Madre. Non ci misero molto, una cosa in day-hospital. E mentre lo faceva, nello stordimento del risveglio le tornarono su come un rigurgito le ragioni di quel ripensamento, grossomodo le stesse che aveva letto negli occhi di lui. Sì, in qualcosa si somigliavano.
Così quando si rividero, all’università, due giorni dopo, non ci fu bisogno di commentare quel che entrambi sapevano già. E che in fondo Sara aveva visto fin dal principio. C’era semplicemente stato un effimero ripensamento, e poi un ripensamento durevole di quell’effimero ripensamento. E come spesso accade con le prime impressioni, era stato l’impulso iniziale a prevalere. O almeno così le parve. Non ci rifletté molto, non volle pensarci. E nemmeno lui. C’erano gli ultimi esami da dare, la tesi da preparare, ebbero entrambi altro per la testa.
Non ci fu bisogno nemmeno di lasciarsi, o non del tutto. Ripresero a frequentarsi, di quando in quando. Facevano ancora l’amore, occasionalmente, nel monolocale di vicolo Casal Galvani. Stando ben attenti a non ricascarci. S’accompagnarono così fino al gran giorno, a luglio, sessione estiva. Faceva un caldo d’inferno nell’anfiteatro di architettura in cui discussero le tesi. Lui assistette alla discussione di lei. Lei a quella di lui. Ottennero entrambi la lode con due tesi eccellenti.
Tanto che poco dopo Davide ebbe un’offerta. Un concorso per una borsa di studio. PhD all’MIT di Boston. La vinse. Dopo l’estate partì per gli States.
Potrebbe essere questa la conclusione della modesta storia di Sara e Davide. Invece vi fu un epilogo. Una piccola coda di cui dar conto. Occorsa quasi vent’anni dopo. Erano entrambi sopra i quaranta e si rincontrarono a un convegno d’architettura a Roma, alla nuvola di Fuksas. Davide venne a illustrare un progetto in rappresentanza dell’importante studio per cui lavorava, uno dei più rinomati di Boston, Massachusetts. Dopo il dottorato era rimasto lì.
Sara non era al convegno in veste d’architetto. No, faceva parte del comitato organizzatore, una delle madrine dell’evento. Dopo la laurea, non aveva in realtà mai lavorato. Quanto meno non come architetto. Quasi subito, sulla scia della madre, aveva cominciato a occuparsi di eventi da allestire, incontri da organizzare, occasioni mondane del genere più vario. E, col tempo, s’era specializzata in quel campo. Qualunque genere di eventi. Premiazioni, celebrazioni, inaugurazioni. Nella fattispecie, una conferenza d’architettura.
S’imbatterono l’uno nell’altra in mezzo alla folla. Sara non aveva colto, nella lista dei partecipanti, il nome di Davide. Né Davide letto quello di Sara, tra i membri del comitato organizzatore. Accadde poco prima che Davide salisse sul palco per l’intervento in scaletta, con le slides del progetto che scorrevano sul grande schermo alle sue spalle. Fu un buon intervento. Sara gli fece i complimenti, dopo.
Quando si videro a cena, la sera, in un ristorante dalle parti del Circo Massimo, fu un revival abbastanza riuscito dei vecchi tempi. Sapevano entrambi come tenere a galla una serata del genere, perché sia piacevole e un po’ nostalgica, con una leggera gradazione sentimentale, ma non troppa. L’essenziale, in queste occasioni, è la misura. Sara scelse un ristorante allora noto di via dei Fienili, dove non erano mai stati assieme. Non un locale dei vecchi tempi. Meglio, forse, nessun legame col passato. Ma lei non lo scelse per questa ragione. Prenotò lì solo per comodità, perché era a mezza strada, visto che Davide aveva l’albergo all’Eur, non lontano dalla Nuvola, e lei abitava ancora in via di Villa Grazioli. Quando ereditò la casa, dopo la morte di entrambi i genitori – il padre parecchio tempo prima, la madre non più di tre anni fa – Sara fece importanti interventi di ristrutturazione. Il suo unico, vero lavoro d’architetto. Riuscì bene, la casa ci guadagnò.
Cenarono insieme, quindi, in quel ristorante ormai chiuso da tempo, tra il Circo Massimo e il Campidoglio. E vi fu un cameriere affabile, che servì loro crudi freschi e filetti di triglia cotti al coccio in un modo che facevano soltanto lì. Bevvero Fiorduva della Costiera e parlarono dei tempi dell’università, ma con leggerezza, mantenendo la giusta distanza. Soprattutto, si scambiarono molte informazioni sul presente, intrecciandole con moderazione, senza mai arrivare a commuoversi, a una versione edulcorata dei ricordi d’allora.
Davide era single, aveva fatto carriera, era diventato uno degli architetti di punta di quel noto studio di Boston. Lavorava sodo, guadagnava bene, faceva una vita intensa e interessante, viaggiava molto. Coi Sarni di Vitorchiano non aveva più avuto niente a che fare. Nessun rapporto. Ma tutto sommato, col senno di poi, si sentiva in debito con loro. Confrontando la sua esistenza con quella di un coltivatore diretto di un piccolo podere dell’alto Lazio, non gli era poi andata male, non aveva di che lamentarsi. In fondo, i Sarni gli avevano fatto un favore. Doveva un grazie sia a loro che al maggiorasco. Un blessing disguised, esemplare di quella classe di fenomeni piuttosto diffusi in cui il male non viene tutto per nuocere.
Anche Sara era single. Il campo in cui lavorava era fatuo, ma divertente; frivolo, forse, però eccitante. Quel che faceva finiva ovunque sotto la luce dei riflettori, costituiva sempre e comunque un evento. Tutto sommato, non il peggio che può capitare, tra le varie opzioni a disposizione di chi non è nella necessità di guadagnarsi la vita né di cercarvi poi chissà che. In assenza di questo, date le circostanze, ne assicura una abbastanza attraente. Quel che il lavoro può diventare, quando non scaturisce da un bisogno e quindi non è una cosa seria. Cogli anni, somigliava sempre più alla madre. Vestiva anche come lei. Solo, a differenza di lei, non s’era mai sposata. E, dopo Davide, non era mai più rimasta incinta.
- Fine
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


