La seconda parte di "Due ragazzi inquieti"
La doppia vita
«Possibile che le sue esperienze con i coetanei fossero tutte così fallimentari? Era lei che non andava, o cosa? Intanto, Sara tornava a sentirsi schiava di una relazione da cui non riusciva ad affrancarsi...»
Riassunto della prima puntata. Sara e Davide, due studenti universitari di architettura, si vedono in un caffè di piazza Dante a Roma. Hanno appuntamento, lei ha da comunicargli qualcosa d’importante che riguarda entrambi. La reazione di Davide, immediata ed emotiva, è contraria alla decisione che Sara sembra aver già preso. Si separano senza litigare, ma in disaccordo. Poco dopo, Sara passeggia da sola per il vicino parco di Colle Oppio, cercando di raccogliere le idee. E’ una ragazza di buona famiglia – padre avvocato, madre con qualche quarto di nobiltà nel sangue, i genitori convivono tenendo in piedi un matrimonio di facciata e in realtà conducendo vite separate – però inquieta, insoddisfatta, apparentemente incapace di sintonia coi suoi coetanei. Ha un passato setimentale turbolento e un legame di cui non riesce a liberarsi con un uomo molto più gande, sposato e padre di famiglia. “Una pariolina, una pariolina viziata,” è la prima impressione che Davide ha di lei, quando s’incontrano a un esame all’università. Lui è un campagnolo, figlio di contadini di un paesino dell’alto Lazio. Nell’azienda di famiglia vige la regola successoria del ‘maggiorasco’: la fattoria andrà a Giuseppe, suo fratello maggiore. Davide, il cadetto, viene fatto studiare e indirizzato verso una vita indipendente, purché lontana da proprietà e tradizione familiari.
Durante il primo anno d’architettura la relazione con Mario cominciò a scricchiolare. Sara era in parte stufa, ma non riusciva a troncare. Conduceva una sorta di doppia vita. All’università si sforzava di frequentare i suoi coetanei, studiava con loro, partecipava ad assemblee e seminari, tentava delle amicizie. Spesso la sera usciva coi suoi compagni e talvolta si concedeva degli amori casuali con qualcuno di loro. Ma in realtà era una ragazza molto sola. I suoi coetanei le apparivano scialbi e deludenti, in confronto a Mario. La loro allegria sconfinava presto nella stupidità e non le lasciava scampo. Le trasmettevano tutti l’inquietante sensazione d’essere parecchio avanti rispetto a loro.
Con le ragazze non andava meglio. Non aveva un’amica vera. Tante compagne, ma nessuna con cui confidarsi sul serio. Quando provò a farlo, incontrò sempre la reazione sbagliata: talune invidiavano la sua relazione con Mario e la subissavano di domande indiscrete e invadenti, altre la disapprovavano e la invitavano a troncare con argomentazioni scontate, di miope opportunismo o di irritante moralismo; tutte, invariabilmente, le parevano sciocche.
A un certo punto a Sara parve di trovare un’amica più interessante, forse vera, in un collettivo di sole donne che cominciò a frequentare all’università. Luciana era di famiglia medio-borghese, rabbiosa e insoddisfatta come lei, ma – le pareva – molto più sicura, molto più decisa, pur avendo appena sei mesi di più.
Luciana era, ante litteram, una single emancipata. Non aveva una relazione stabile con nessun uomo, pur frequentandone diversi in contemporanea. Nei rapporti coi maschi, che raccontava a Sara con dovizia di particolari, pareva che il suo scopo principale fosse mettere in luce il loro lato peggiore. Ne esplorava gli aspetti ridicoli, goffi, ipocriti, vanesii, stupidi e immancabilmente vili. Seguendo lo stesso metodo di ricerca e di reciproche confidenze ne scoprirono diversi anche in Mario. Luciana era divertente, spregiudicata, molto sboccata, intellettualmente brillante e insieme si facevano delle matte risate. Sara cominciò a considerarla un’alternativa a Mario per andare a vedere pièce teatrali e frequentare cineclub. Finché una sera, a una rappresentazione delle Bonnes di Genet messa in scena in un garage di Trastevere da una giovane regista che frequentava il loro collettivo, nel buio della sala si ritrovò le mani di Luciana addosso.
Ci andò a letto quella sera stessa e fu la sua prima esperienza lesbica completa. L’atto sessuale la lasciò interdetta, stupita, come sulla soglia si un paesaggio sconosciuto. E anche quando lo fecero ancora, nei giorni che seguirono, quella strana sensazione di spaesamento e meraviglia non si attenuò. Restava una stanza inesplorata, in cui, pur continuando a entrare, non riusciva a orientarsi prima d’esserne uscita.
Superare quel limite, tuttavia, non fu privo di conseguenze. Trasformò parecchio, in peggio, il rapporto con Luciana. Da allegro, spregiudicatamente complice, divenne rapidamente intransigente e dogmatico; e infine cupo, vagamente ossessivo. Questione di settimane, neanche un mese dopo Les bonnes Luciana era già una gelosa compulsiva che si sentiva costantemente minacciata di tradimento etero. Per prima cosa le proibì di rivedere Mario (ma Sara, che fin dall’infanzia, in casa, aveva imparato che un rapporto di coppia esige accorti dosaggi d’ipocrisia e finzione, aveva continuato a incontrarlo di nascosto, sia pur rarefacendo molto la relazione). Era come se nel rapporto erotico Luciana gettasse la maschera e liberasse tutte le sue nevrosi. Dietro la ragazza libera, forte, audace e allegra che l’aveva conquistata, appariva la possessiva, fragile e fobica, che le ripugnava.
Una sera andarono a vedere Le lacrime amare di Petra Von Kant in un cineclub nei pressi di piazza Verbano. Il film atterrì Sara, entrò talmente nell’incubo lesbico che all’uscita era terrea, ammutolita. Si liberò di Luciana con una scusa e s’incamminò verso la Salaria. Girato l’angolo vide un bar con l’insegna del telefono. Era ancora aperto, trovò in tasca degli spiccioli, entrò e chiamò Mario. Era già a letto. Benché fosse ormai molto tardi, riuscì a convincerlo. Bastarono poche frasi concitate. La sua voce era così disperata e al tempo stesso talmente perentoria che Mario non ebbe il coraggio di rifiutare. Brancicò i panni sparsi ai piedi del letto, farfugliò qualche goffa parola di spiegazione alla moglie insonnolita che gli giaceva accanto e che non replicò a quelle scuse assurde – una pallida imitazione della supercazzola coniugale di Ugo Tognazzi in Amici miei – trovò a tastoni le chiavi della macchina e uscì.
S’incontrarono verso l’una di notte nel posto che avevano usato negli ultimi tempi per i loro sempre più radi incontri, uno squallido monocamera al Labaro lasciato momentaneamente sfitto. Per Sara fu necessario ripeterlo e ripeterlo. Dopo, esaurita la furia, scorsero moderate lacrime. Quando gli parve non più inopportuno, lui le fece qualche domanda. Lei non mentì del tutto, ma non diede spiegazioni e Mario fu abbastanza intelligente da non chiederne.
Superate le medie – massimo livello educativo acquisibile a Vitorchiano – sia Davide che Giuseppe furono mandati a frequentare le superiori a Viterbo. Giuseppe venne iscritto d’autorità all’istituto agrario. A Davide fu offerta l’opportunità di un liceo. Ci andavano assieme, con la prima corriera del mattino. A ora di pranzo Giuseppe la riprendeva per tornarsene a Vitorchiano e nel pomeriggio – studiato sommariamente quel che aveva da studiare – andava a far pratica nei campi, aiutando il padre e la madre nella gestione della fattoria; Davide invece dopo le lezioni restava a scuola – quel liceo offriva il tempo pieno – e poi passava il resto del pomeriggio in città, dove ebbe modo di proseguire l’apprendimento dell’inglese con insegnanti meno precari rispetto alla comare di Vitorchiano. Giocava a pallavolo presso una polisportiva e suonava il clarinetto in una band di ragazzi che si esibiva all’ora dell’aperitivo in un caffè del centro. Tornava a casa tardi, solo, con l’ultima corriera serale.
Il lucido disegno della famiglia Sarni si concretizzò con la maggiore età dei ragazzi. Non appena conseguito il diploma, a Davide fu proposto – senza molte possibilità di scelta – di proseguire gli studi all’università, verosimilmente a Roma, orientandosi abbastanza liberamente verso una disciplina che avrebbe potuto dargli accesso alle cosiddette professioni liberali: avvocato, medico, ingegnere. Giuseppe, una volta ottenuta la licenza agraria, prese la posizione che gli era stata destinata in azienda, affiancando il padre e la madre nella sua conduzione.
Optando per architettura a Roma, Davide lasciò Vitorchiano. Era abbastanza grande da capire che era un passo definitivo. Era fuori, il paese e la fattoria non erano più cosa sua. S’iscrisse alla Sapienza, la famiglia pagava per lui l’affitto di un monolocale con angolo cottura in un quartiere popolare, più tutte le spese universitarie, più un ragionevole fisso mensile per le esigenze di vitto, vestiario e beni essenziali. A quelli voluttuari – viaggi e le altre distrazioni di un ventenne – avrebbe dovuto provvedere da sé. Perciò si procurò un impiego part-time come magazziniere in un deposito di ricambi industriali sulla Tuscolana. Tutti i pomeriggi lavorava lì, con muletti e bancali, a scaricare container e disporre sugli scaffali di un capannone – o direttamente sui camioncini da trasporto delle officine – le casse di ricambi che un certo numero d’imprese meccaniche della provincia venivano a ritirare in quel magazzino centrale.
Un sistema che ha una sua logica, in fondo, e dispone anche al suo interno di ragionevoli misure compensative, per cui se al primogenito vengono trasmesse integralmente tradizione e proprietà di famiglia, la famiglia stessa provvede comunque a dotare i cadetti di un’istruzione e di altri strumenti che consentano loro di farsi strada nel mondo. Purché a distanza di sicurezza dalla proprietà. Certo, per quanto mitigata da questi contrappesi, si può pensare che vi sia una percezione d’esclusione, da parte del figlio minore. Specie se unico, perché allora lui è proprio il reietto. Nel caso di Davide, questo s’andava probabilmente a innestare in un temperamento introverso di suo e in un’intelligenza abbastanza viva, il che nella fattispecie non aiuta a star meglio.
Possibile che le sue esperienze con i coetanei fossero tutte così fallimentari? Era lei che non andava, o cosa? Intanto, Sara tornava a sentirsi schiava di una relazione da cui non riusciva ad affrancarsi. Era ricorsa a Mario come a un salvagente, una cima afferrata d’istinto sul punto d’affogare. Davvero senza non ce l’avrebbe fatta a tirarsi fuori? Di fatto, dopo, fu invece facilissimo rompere con Luciana, chiudere con quel mondo. Un paio di tentativi più seri che fece con dei compagni d’università, naufragarono in poche settimane. Ed era ogni volta con un senso crescente di nausea e la percezione di essere presa in un’altra trappola che tornava nuovamente da Mario.
Passavano lunghe serate nella garçonnière del Labaro, a vedere film in cassetta, parlare di libri, bere, farsi canne e scopare. E nell’affondare in quella sorta di oblio dolceamaro che le riempiva gli occhi di lacrime, non resisteva ad andare col pensiero all’ultimo coetaneo per il quale aveva tentato di lasciare Mario e dal confronto il ragazzo usciva ogni volta sconfitto. Le venne in mente quel gioco di fiammiferi in un film visto di recente nel corso di una delle loro serate, quando all’uomo maturo viene chiesto: “Allora, a questo gioco lei non può perdere?” e lui risponde: “Sì, posso perdere. Però non perdo mai.” Mario era questo, ne stava assumendo il ruolo; e Sara scopriva d’essere molto più fragile e indifesa di quanto avesse creduto.
Nel frattempo, era diventata amica della moglie e di quando in quando andava a trovarla e si divertiva a giocare con la loro bambina. La bambina le piaceva. Era pura, taciturna, le ricordava in modo inquietante uno stato anteriore. La prima volta che la portò a casa, Mario la presentò come una sua assistente alla galleria. Elena, questo il nome della moglie, le disse quasi senza guardarla:
“Sì, va bene. Siediti. Faccio il tè.”
Chiacchierarono come due amiche. Elena era una donna ancora bella, di carnagione scura, capelli castani e lisci raccolti in un nodo e fissati da un fermaglio alla nuca, labbra sottili ed esangui, neanche un velo di trucco. Portava sempre ampi scialli frangiati e gonne lunghe fin sotto il ginocchio. Era il genere di donna emancipata, ma appartenente a quella sottoclasse calma e posata, non arrabbiata come Luciana. Fu chiaro fin dal primo incontro che era perfettamente a conoscenza del fatto che Sara fosse l’amante di suo marito. Nei molti mesi che durò il loro rapporto di quasi-amicizia, non ne parlarono mai apertamente. Ma talvolta, in sua presenza, Mario ed Elena sfioravano quel tema: il genere di unioni libere, intellettualmente e sessualmente aperte, cui iscrivevano il loro ménage. Una volta Elena le sussurrò: “Credi che anch’io non mi prenda delle distrazioni? Lo faccio, di quando in quando. Solo, ne ho meno bisogno di lui.” La cosa pareva funzionare, quanto meno era durata a lungo. Ma Sara non poté fare a meno di pensare che quel modo d’intendere il matrimonio le ricordava abbastanza da vicino, disgustosamente, quello che aveva sotto gli occhi tutti i giorni in casa.
A volte, in quelle serate a tre, Sara si rendeva conto d’essere relegata al ruolo di baby sitter, e, in fondo, di preferirlo. Elena, che insegnava a scuola, s’era portata a casa dei compiti da correggere, Mario aveva le bozze di un catalogo da rivedere… La irritava veder emergere da ogni gesto, in ogni oggetto, l’intimità coniugale tra quei due. Intimità che era nel mobilio di casa come nei toni di voce, e che pareva resistere senz’alcun danno collaterale ai tradimenti, alle ipocrisie, agli inganni, come se appartenesse a un’altra sfera morale, persistesse su un piano diverso. Un connubio fatto di silenzi, di atti e sguardi trattenuti, di parole non pronunciate; e poi di rimproveri privi di rabbia, di esortazioni senza speranza, di constatazioni impotenti; di tutta un’infima banalità quotidiana e in fin dei conti d’abitudine, che tracciava un legame tra Mario e la moglie molto più tenace di quello che lei avrebbe mai potuto avere con lui. Intuì allora quel che non andava in quella relazione: era una costante, sottile, inoculazione di cinismo. Il rapporto con un uomo tanto più anziano – e anche quello con sua moglie – le trasmettevano quotidianamente piccole dosi d’esperienza, quantitativi non letali di delusioni, ripensamenti, errori, sconfitte. Le venivano pian piano somministrati a sua insaputa. “Come Notorious,” le venne da pensare, film che aveva rivisto di recente nella garçonnière di Mario. “Mi stanno avvelenando.”
Quando, pochi giorni dopo, rincontrò Davide nella biblioteca di dipartimento, si rese conto che era andata lì a cercarlo. Lo trovò chino su un volumone, indosso una tuta da colletto blu. Non il vestito buono – la tenuta da caccia – che teneva da conto per gli esami. Quando gli si accostò, stavolta il primo a parlare fu lui:
“Quella che non soffre né di gelosie né d’invidie. Beata te. Io ne ho parecchie, invece.”
Le strappò un sorriso.
“Cosa studi, Le Corbusier?”
“Guardo i disegni. Poi, a casa, provo a rifarli.”
“Quanti esami ti mancano?”
“Sette. A te?”
“Sei.”
“Guarda, non è che non vado con gli altri, alle esercitazioni, perché non mi piace stare in mezzo a loro. E’ che le esercitazioni si svolgono di pomeriggio. E io il pomeriggio lavoro.”
“Ah, lavori… E che fai?”
“Sono operatore in un magazzino. Scarico e carico merci. Coi muletti, sai, i fork-lift,” mimò il gesto, alla guida di un macchinario immaginario lì dentro alla biblioteca. “Quei carrelli che alzano casse e imballi.”
“Oh, capisco… Che tipo di merci?”
“Ricambi meccanici.”
“E dove sta, questo magazzino?”
“Sulla Tuscolana, dopo il raccordo.”
“Lontanuccio. Ci vai tutti i giorni?”
“Dal lunedì al venerdì. Secondo turno, dalle tredici alle diciotto.”
“E la mattina…”
“La mattina studio, qui in biblioteca. Preparo gli esami. Per questo non vengo a lezione.”
“Ma non puoi mica fare tutto da solo… un po’ con gli altri bisogna pur starci.”
“Sì che posso, lo vedi. E’ che devo concentrare i tempi.”
“Già già, ti mancano ancora sette esami…”
“Sicuro.”
“Insomma, uno studente-lavoratore. E’ questo che sei?”
“Guarda… può darsi che se fossi venuto a lezione il mio libretto sarebbe migliore… Ma può anche darsi di no. Chi può dirlo? E comunque, ormai è alle spalle. Tra meno di un anno è fatta.”
“Quel che volevi, no?”
“Esatto.”
“Un pezzo di carta per iniziare un’altra vita? E’ questo la laurea, per te?”
“Più o meno.”
“E dopo? Visto che hai le idee così chiare… Qual è il tuo piano?”
“Non sono affatto chiare, le mie idee. E non è quel che volevo.”
“Intendi fare la professione, entrare in uno studio?”
“Vedremo.”
“Restare all’università? Il professore sembrava piuttosto impressionato dal tuo esame.”
“Te l’ho detto, quello è un ficcanaso.”
“Potresti chiedere la tesi a lui…”
Gli sfiorò una mano. Stabilì lei il primo contatto.
“Me lo fai vedere, questo famoso libretto?”
Finirono di conoscersi nell’alloggio di lui, una minuscola camera ammobiliata con angolo cottura non molto diversa dalla garçonnière di Mario. Stessa periferia, stessi palazzoni. Solo un’altra zona di Roma, al Tiburtino, un monocamera in vicolo Casal Galvani, Davide abitava lì.
Quindi all’inizio della loro storia vi fu forse un equivoco. Sara colse subito, in Davide, un’introversione, un’inclinazione all’isolamento che la attrasse e le parve in qualche misura a lei congeniale, persino sotto certi aspetti affine al modo in cui lei percepiva se stessa. Con una differenza. Sara era in materiale continuità con la sua famiglia, pur disprezzadola aveva il conforto di una tradizione alle spalle. All’opposto di Davide, che – contro la sua volontà – ne era stato privato. Era libero, gli si offrivano molte possibilità eccettuata una.
Dati questi antefatti, torniamo ad oggi, nei dintorni di quel caffè di piazza Dante ove Sara e Davide hanno appena fatto colazione. Sara vagabonda ancora un po’ per il parco di Colle Oppio. La posizione che neanche un’ora fa ha espresso a Davide è ragionevole: ha solo ventidue anni, non si sente pronta. Non è stata certo una sua scelta. Hanno entrambi ben altri piani di vita, com’è del tutto sensato per due studenti universitari con laurea in vista, cui mancano ancora pochi esami e un pezzetto di tesi per chiudere un ciclo di vita. Avere tutte le prospettive aperte per iniziarne liberamente un altro, senza vincoli, le pare una pre-condizone essenziale. Quel passo adesso, proprio no.
Ma, visto che è così sicura, che ha già preso per conto suo la decisione, perché – si chiede – ha sentito il bisogno di parlarne con Davide? Perché presentargli così, come un pacchetto chiuso, al tempo stesso problema e soluzione? Sì, sì, certo, era giusto metterlo al corrente, è un affare anche suo, eccetera… Ma a Sara non par d’essere del tutto sincera con se stessa, nel darsi questa risposta. Che sia giusto o no, a lei in fondo che gliene importa? Si conosce ormai abbastanza bene da sapere che le motivazioni dei suoi atti non sono riconducibili a niente di simile. Contingenze specifiche, l’hic et nunc del suo desiderio o del suo utile. Fare la cosa giusta… non è per quello che gliene ha parlato, pensa proprio di no.
E certo non gliene ha parlato perché ha bisogno d’aiuto, materiale o morale. Sa benissimo come fare, ha già preso accordi con una nota clinica non lontana da casa, dove ieri è andata per un controllo. Il costo non è un problema – per lei non lo è mai – e di sicuro non potrebbe essere Davide, che non ha un soldo, ad aiutarla su questo piano. Perché glielo ha detto, allora? Solo per tacitare la coscienza, dirsi io ho fatto comunque quel che dovevo? Per una forma di rispetto verso Davide? Un rispetto, visto il quadro decisionale complessivo, così etereo e rarefatto da ridursi a vuota cortesia? No, nessuna di queste risposte la convince. Però se l’ha fatto un motivo ci sarà pure. Sara lo sa che c’è, è abituata a guardarsi dentro, a fare apertamente i conti con se stessa. Sente che nessuna di queste ragioni è vera, ma ce n’è una, più nel profondo, che lo è. Deve trovarla. E’ questa che cerca, adesso, passeggiando per Colle Oppio.
Mentre Sara s’interroga sui motivi – i veri, personali motivi – per cui ha voluto mettere Davide al corrente della faccenda, anche Davide, dal canto suo, s’interroga sul perché della sua proposta. Colpito a freddo nel dehors di quel caffè, ha reagito d’istinto, in modo scomposto, condito d’una dose eccessiva d’emozione. Ma, forse, nel suo istinto è stato meno avventato di quanto a prima vista parrebbe. Ha chiesto a Sara di ripensarci, di contemplare la possibilità contraria. Un legame del genere, a ventidue anni e nella sua condizione, senza un quattrino, entrambi studenti… con quali prospettive?
Queste domande, che ora Davide rivolge a se stesso, Sara però non gliele ha fatte. Non ha fatto alcuna domanda, a dire il vero, né commentato in altro modo. Potrebbe leggere la sua reazione nel modo più semplice: Sara non ha preso proprio in considerazione la sua proposta, non intende mettere in discussione quel che ha deciso… Però la sua impressione è diversa. Gli pare che invece le sue parole – le confuse ed emotive parole che le ha rivolto – abbiano aperto una breccia, forse stanno lavorando dentro di lei. Ha questo in mente, mentre si alza dai tavolini di piazza Dante e s’incammina – il conto, come sempre, l’ha già pagato Sara, passando in cassa quando se n’è andata – allontanandosi in direzione opposta, verso San Giovanni.
Sara passa quasi tutto il resto della mattinata girovagando per il parco di Colle Oppio. Fa freddo, dopo la pioggia mattutina il cielo è schiarito, è uscito il sole. Una di quelle belle e gelide mattinate di tramontana che gli inverni romani ancora regalano. Il vento ha spazzato via le nuvole, intirizzisce il viso… Sente il bisogno di qualcosa di caldo e s’accomoda ai tavolini di Mustafà – sotto i pini, nel lieve tepore dei funghi a gas accesi – ordina un tè. Il tè alla menta di Mustafà è buonissimo, lui lo prepara teatralmente, secondo tradizione maghrebina: glielo serve in una gran teiera di cristallo rivestita d’intarsi d’argento, col lungo becco inzeppato di rametti di menta, dal quale il tè spilla in un getto sottile e arcuato, molto esteso, che Mustafà è abilissimo a catturare a distanza, in un bicchierino alto dai bordi dorati incurvati all’in giù, senza versarne neanche una goccia. Completata la sua esibizione, Mustafà si ritira. Sara sorbisce la bevanda bollente, che prima scalda le mani e poi scivola lungo la gola, irrorando le pareti interne dello stomaco e diffondendo il suo magnifico calore. E, mentre beve, giunge a una conclusione.
Ne ha parlato con Davide, in realtà, perché voleva che lui le dicesse quel che le ha detto: facciamo il contrario. E’ questa la vera ragione. Sara lo conosce bene… abbastanza bene… bene a sufficienza, si dice, da aver previsto la sua risposta. Sapeva cosa Davide le avrebbe chiesto di fare. E voleva che lo dicesse. Infatti questo apre altri scenari, che adesso con calma, sorbendo il tè, anche lei può contemplare.
Perché non farlo, in fondo? La sua vita sentimentale – e non solo sentimentale – finora è stata un gran casino, ha sbandato, vagabondato, s’è quasi persa, non è mai stata non solo felice, ma neanche granché serena. Sempre inquieta, molto sola… con Davide ha trovato un compagno e un po’ di stabilità. Lui le piace, sta bene con lui. Non avevano certo pianificato questo, non hanno pianificato pressoché nulla, è un legame leggero, da studenti. Ma è accaduto e li mette davanti a una scelta, su una questione che non hanno deciso loro. E non è il modo migliore di affrontare una scelta? Un fatto avvenuto fuori dal loro controllo: tutto sommato, una fortuna. Per caso, se esiste il caso, o per destino o per altro. Non è questo il punto. Il punto è semplicemente che è successo. Un fatto è un fatto.
Quel fatto, nella sua autonomia, potrebbe cambiarle la vita, in meglio o in peggio. Ma, data la sua situazione economica, il peggio, se fosse tale, si può gestire. Ha ampi margini di manovra. Non ci sarà nessun problema ad avere fin da subito tutto l’aiuto che vorrà in ‘famiglia’ – nella sua estranea e indifferente, però tollerante e capace famiglia. Non vi sarebbero certo problemi di spazi e di libertà, in quella casa enorme piena di camere vuote e di personale domestico a disposizione, se decidesse di restare lì. Né vi sarebbe alcun ostacolo a farsi assegnare qualcuna delle numerose proprietà immobilari che i suoi posseggono in giro per Roma, se decidesse di andare a vivere altrove. Se vuole, può essere viziata; è il caso d’approfittarne.
Fine seconda puntata (continua).
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


