A proposito di “Gisimunnu”
Prosimetro Guardì
Il nuovo libro di Michele Guardì alterna poesie a brevi prose in un clima sempre sospeso tra Gozzano e Trilussa. Con una bella leggerezza da canzonette sullo sfondo
Quando Michele Guardì, prolifico autore di trasmissioni televisive nazional-popolari (la sua biografia è un pezzo della storia della Rai), scrive romanzi, ritrova ogni volta una vena sperimentale che spiazza i propri lettori. Dopo il romanzo precedente, La ciantona – un gioco letterario spericolato in cui i personaggi entrano ed escono dalla narrazione – mi aspettavo un romanzo più convenzionale e non un libro così inafferrabile come Gisimunnu (Baldini & Castoldi, 176 pagine, 17 Euro), che appartiene al genere nobilissimo del prosimetro (grande archetipo la Vita nova!), composto cioè da poesie e da brevi prose.
Vi dico subito i due scrittori che mi sono venuti in mentre leggendo queste pagine. Non è detto che Guardì li abbia tenuti presenti ma ho ritrovato la loro ispirazione nel libro che ha scritto: Gozzano e Trilussa.
Da un lato Gozzano, un autore che inaugura la poesia moderna in Italia, con la sua poetica crepuscolare delle cose di pessimo gusto, che poi sono gli oggetti di arredamento del mondo antico, le piccole cose inutili, anacronistiche, i negozi di una volta, etc. in cui è racchiuso il mistero della vita, così come questo mistero della vita è racchiuso nelle canzonette (diceva Pasolini che contengono qualcosa di “abiettamente poetico”: sono le nostre madeleine di massa). Non tanto e solo le canzoni nobili di De André e De Gregori, quanto la canzonetta insulsa che dura una sola estate: Per quest’anno non cambiare… di Piero Focaccia – oggi giustamente dimenticata – accompagnò un mio flirt adolescenziale. Insisto sulle canzonette perché alcuni versi di Guardì sembrano presi da una canzone: «Le prime canzonette al pianoforte. / “Giro di do, terzine improvvisate. /Amore cuore…rime anche banali / per certe storie mai dimenticate”». …potrebbe averla cantata Lelio Luttazzi, che era di Trieste, la stessa Trieste di Umberto Saba. «Mi ha sempre affascinato la rima fiore/amore, la più antica e difficile del mondo». In Guardì ritrovo la poesia gozzaniana della quotidianità più dimessa, e poi il trascorrere di tutto, spariscono persone, oggetti, sparisce perfino il proprio io, ma tutto questo viene detto, gozzanianamente, con un tono leggero e svagato, a volte restando volutamente in superficie: come sapeva Leopardi, a che pro approfondire dato che il fondo è il nulla? Questo è il motivo per cui preferisco l’opera buffa a Wagner: Rossini e Donizetti non hanno bisogno di essere profondi, hanno capito tutto della vita e ce la rappresentano in modo giocosamente malinconico. Ma in questi versi di Guardì scorre anche una vena di socialismo direi naturale, pre-ideologico, e di ispirazione cristiana, una visione del mondo diviso in classi, in ricchi e poveri, in padroni e servitori. Dove perfino il furtarello può diventare un gesto di giustizia distributiva: «Stava solo prendendo qualcosa / non pensava che fosse rubare: / a vent’anni se chiama la fame / qualche cosa bisogna mangiare».
Dall’altro, Trilussa, con la sua arguzia e affabilità. Guardì è siculo, agrigentino, ma dopo tanti anni a Roma è stato contagiato dal genius loci, dal buon senso romanzo, imbevuto di stoicismo e di epicureismo (il carpe diem). Alcune di queste poesie le ho immaginate in romanesco… Alle poesie Guardì affida il coté filosofico, gnomico: ci parla della vita e della morte, del bene e del male, come farebbe un antico stoico. Le sue poesie parlano di cose sublimi e di cose basse. Penso alla poesia Libertà: «Conta e riconta prima di parlare. / Prima di dire agli altri quanto pensi. / Specie se sono inutili ironie, / non perderti in meschini doppi sensi». O anche Alla vita, «Ascolta vita. Guarda con amore / chi sta da solo dentro una corsia / chi cerca di capire dove andare / e che ancora non trova la sua via». Se li mettete in romanesco è puro Trilussa.
Le prose sono un po’ pirandelliane: spesso apologhi comico-grotteschi, riletture non convenzionali della storia d’Italia, cronache di paese, bozzetti di vita provinciale, racconti con un finale beffardo. Si vedano «La piazza di Castroianni», dove a distanza di cento anni c’è un’autorità del paese che viene schiaffeggiata da qualcuno, o quello sulla bomba su Agrigento che non scoppiò mai per l’intervento di un nostro connazionale e vero patriota, o «Mi alzo e me ne vado»: un intero destino condensato in una paginetta, o «La guerra all’Ucraina», con la guerra criminale di invasione russa raccontata in dialetto come in un teatro dei pupari
La pagina più bella, dedicata al padre «A mio padre». Il padre poteva essere uno dei 36 “Giusti” del Talmud babilonese, che – sparsi nella diaspora – ad ogni generazione della storia umana riescono a prevenire la catastrofe. Sono persone speciali, dotate di poteri speciali, ma non sanno di far parte dei giusti e ignorano l’identità degli altri giusti. Credo che ognuno di noi nella vita abbia incontrato almeno uno di questi trentasei giusti – persone del tutto anonime, non memorabili eppure preziose – e forse non ne rivela il nome per paura che ne sia penalizzato.
Azzardo un’ipotesi: Michele Guardì potrebbe anche aver pubblicato l’intero libro anche solo per metterci questa pagina dedicata al padre.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.


