Diario di una spettatrice
Amore in umido
Il nuovo film di Paolo Genovese, "FolleMente", vorrebbe riecheggiare Woody Allen. Ma senza ironia è difficile parlare d'amore. Non basta nemmeno infilarsi nella testa degli "innamorati"...
Era il 1972 quando Woody Allen portò sul grande schermo le domande e le fantasie ricorrenti degli americani a proposito del sesso con un film di umorismo folgorante e sublime ironia: Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere. Nell’ultimo dei sette episodi, entrava nel cervello di un uomo alle prese col primo appuntamento, rivelando le emozioni e le dinamiche mentali e fisiologiche che si sviluppano nel corso di una cena romantica fino all’agognata copula.
Il nuovo film di Paolo Genovese, FolleMente, ripropone in buona sostanza questo tema, ispirandosi con ogni evidenza (anche se il regista pare non volerlo ammettere) alla struttura narrativa di un’altra pellicola che dieci anni fa portava per la prima volta in scena le emozioni di una ragazzina facendone dei veri personaggi: il film d’animazione Inside Out prodotto da Disney-Pixar.
Il film di Genovese racconta il primo appuntamento di Piero e Lara (Edoardo Leo e la sempre brava Pilar Fogliati), due personaggi colti in quella fase della vita che prelude al momento delle scelte definitive, lui stropicciato da un divorzio recente con figlia irrequieta, lei appena uscita dalla relazione con un uomo sposato che tuttavia non la molla. Le menti dei due protagonisti sono condizionate dalla presenza invadente di un coro dissonante di voci che, diversamente dai mitici vocalist “4+4 di Nora Orlandi”, battibeccano e interferiscono nei loro comportamenti e nella loro comunicazione: nella testa di lui ci sono Eros (Claudio Santamaria), Romeo (Maurizio Lastrico), Valium (Rocco Papaleo) e il Professore (Marco Giallini), nella testa di lei Trilli (Emanuela Fanelli), Alfa (Claudia Pandolfi), Giulietta (Vittoria Puccini) e Scheggia (Maria Chiara Giannetta).
Lo spettatore capisce fin dalla prima scena – la scelta del preservativo a un distributore automatico in cui si scontrano i punti di vista dei quattro archetipi maschili – come si svilupperà la storia e in quali passaggi la commedia otterrà i suoi momenti più comici.
Uno dei più riusciti avviene all’inizio, quando lei non sa decidere l’illuminazione adeguata al primo appuntamento che ha azzardato a casa sua (candele o luce diffusa?) e nell’incertezza accende e spegne le lampade producendo segnali luminosi intermittenti che a lui, in attesa sotto casa, sembrano un alfabeto Morse indecifrabile. E divertente è anche la ricerca dei termini più appropriati in un dialogo esplorativo, con la mente di lui piena di schedari affannosamente consultati dalla “banda dei 4” mentre lei tenta di suggerire la parola giusta. E come non riconoscere la verità che si nasconde nella scenetta sulla disattenzione maschile, per cui lui ricorda dell’abbigliamento di lei solo le trasparenze e l’altezza dei tacchi mentre lei ha memorizzato ogni dettaglio di lui?
Non è necessario essere un terapeuta o praticare meditazione per sapere che la mente umana è quella macchina micidiale che produce a raffica pensieri, desideri, illusioni e proiezioni, aspettative, giudizi e reazioni come nessuna ChatGPT potrà mai fare e che nessuno può spegnere.
Sopravvivono, a dispetto delle intenzioni del regista, molti stereotipi nella sceneggiatura scritta per Genovese da Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Flaminia Gressi e Paolo Costella. E certo non è semplice gestire la sovrapposizione di otto personaggi che si agitano e litigano e fanno il tifo nei backstage mentali dei due protagonisti, come dimostra il montaggio non sempre efficace, a tratti caotico.
Ovviamente sarebbe ingeneroso confrontare i dialoghi di Woody Allen con quelli di Genovese, perché non c’è gara col film di oltre mezzo secolo fa, anche se le somiglianze sono molte. E se Woody Allen rappresentava l’acme del rapporto con trovate geniali e dissacranti (come lo spermatozoo nero che si chiede cosa ci fa tra gli spermatozoi bianchi), Genovese sceglie la hit dei Queen Somebody to love per riunire finalmente i 4+4 in un coro di voci all’unisono nel momento del sospirato piacere.
Ciò che manca secondo me al film di Genovese è soprattutto l’ironia. Lara e Piero si guardano e si desiderano, ma con l’incertezza di chi sa già come potrebbe finire, un po’ annoiati e un po’ tristi, prigionieri dell’imbarazzo che li ferma a un passo dal decidere con leggerezza e allegria cosa è meglio fare in un primo appuntamento, sperando di far nascere una nuova relazione. In definitiva loro per primi sembrano non crederci. In questo imbarazzo i due protagonisti sono lo specchio dei tempi che stiamo vivendo, ma anche di una storia già vista che non ha il ritmo travolgente e l’originalità del soggetto di Perfetti sconosciuti.
La battuta più divertente? «I profilattici usati vanno nella plastica o nell’umido? Nell’umido». Ecco, parliamo di raccolta differenziata, in attesa di scoprire se possiamo ancora credere all’amore.


