Diario di una spettatrice
La pistola di Rasoulof
“Il seme del fico sacro”, il bel film di Mohammad Rasoulof, racconta l'orrore dell'Iran attraverso la storia di un padre “buono“ che si trasforma nel giustiziere della propria famiglia
La prima inquadratura mette a fuoco otto proiettili. Una mano firma un foglio. La stessa mano prende i proiettili. L’uomo sale in macchina e si avvia nel traffico di Teheran. La pistola è sul sedile accanto a lui. Quell’arma determinerà il punto di svolta della storia. Del resto, come diceva Cechov, “se compare in scena una pistola, quella pistola prima o poi sparerà”. Inizia così il film del regista iraniano Mohammad Rasoulof Il seme del fico sacro, Palma d’oro mancata a Cannes 2024 (ha ricevuto solo il premio consolatorio della critica), meritatamente in corsa per l’Oscar al migliore film straniero.
Interrompo per un attimo le considerazioni sulla pellicola girata clandestinamente in Iran nei giorni delle rivolte seguite all’uccisione di Masha Amini, con la nascita del movimento “Donna vita libertà”, per sottolineare due punti.
Il primo riguarda l’eccezionalità del regista. Rasoulof è fuggito l’anno scorso dal suo paese in seguito alla condanna definitiva a otto anni (con fustigazione) da parte del regime degli ayatollah, affrontando un viaggio a piedi di un mese per scavalcare clandestinamente le montagne innevate del confine turco e rifugiarsi in Germania, dove ha ultimato il montaggio del film in tempo per portarlo in concorso a Cannes. Il pubblico lo ha accolto con una standing ovation di 15 minuti. Il suo dramma evoca quello di tanti protagonisti della scena cinematografica iraniana, primo fra tutti il regista Jafar Panahi.
Il secondo punto riguarda il significato del titolo. Il fico sacro (o ficus religiosa) è una pianta gigantesca e millenaria i cui semi sono dispersi dal vento e dagli uccelli. Quando i semi germogliano in un’altra pianta, si sviluppano fino ad uccidere chi li ospita. Quindi il titolo è una metafora.
C’è una storia grande in questo film, la storia di un paese favoloso piegato da un regime teocratico che tutto proibisce e tutto condanna, in cui la gente che reclama diritti e libertà, in prima fila le donne, viene massacrata nelle piazze e giustiziata nelle carceri. E c’è la storia piccola di una famiglia che è parte di quel regime e che inevitabilmente diventa lo specchio della storia grande che finirà per travolgerla.
Iman, il padre, da vent’anni lavora nella pubblica amministrazione. Finalmente gli viene concessa l’agognata promozione a pubblico ministero in un tribunale rivoluzionario, l’anticamera per diventare giudice. È un uomo devoto e ligio alle regole, ma non è un integralista cieco, sa che i tribunali sono odiati dalla gente e vuole fare il suo mestiere nel migliore dei modi. È perciò sconcertato quando si rende conto che non gli viene concesso il tempo per istruire correttamente ogni causa, gli viene chiesto solo di ratificare con una firma le condanne a morte già stabilite per chi si oppone al regime. Si adatterà ben presto al suo nuovo incarico, non perché ci crede ma per vigliaccheria.
Condannare stanca. Ogni giorno i tribunali macinano fino a trecento sentenze. Ma Iman si consola sapendo che la sera a casa lo attende Najmeh, ancora innamorata dopo ventun anni di matrimonio e due figlie. La donna gli serve il tè, mette i suoi vestiti in lavatrice, ripone nel cassetto del comodino la pistola che lui distrattamente ha dimenticato in bagno, lo massaggia sotto la doccia, gli stende addirittura la tinta sulla barba e sui capelli per farlo sembrare più giovane. E la mattina gli abbottona la camicia perfettamente stirata e lo accompagna alla porta, mentre già immagina la casa più grande che potrà permettersi con l’aumento di stipendio e in cui ogni figlia avrà la propria stanza. Perché Iman è un uomo buono che la ama e ama le loro figlie, anche se sta andando in ufficio a firmare condanne a morte.
A spezzare l’equilibrio apparente della famiglia ci pensa la storia grande che va in scena nelle vie di Teheran. La figlia maggiore Rezvan nasconde nell’appartamento, complice la sorellina Sana, un’amica massacrata dalle guardie della rivoluzione e Najmeh non può evitare di curarla, lei che non capisce ciò che sta succedendo è costretta a nascondere il fatto al marito, per la prima volta deve mentire. La tensione in famiglia è alle stelle, la ragazza non accetta più la versione ufficiale sulla morte di Masha Amini e le bugie del regime che la tv diffonde, affronta il padre a muso duro, è pronta ad andarsene. Ed ecco che tutto precipita: la pistola data in dotazione a Iman per autodifesa sparisce.
È straordinaria l’abilità con cui Rasoulof monta a poco a poco tutti gli ingredienti del dramma: dai gesti quotidiani fotografati nei minimi dettagli all’interno della casa – la cottura dei cibi, la cura dei corpi, gli sguardi, le espressioni, le luci, gli arredi – alle riprese (autentiche) di ciò che avviene nelle piazze attraverso i video dei cellulari che le figlie guardano di nascosto dai genitori e che irrompono nella narrazione attraverso un montaggio che lascia senza fiato. Tutto contribuisce a portare lo spettatore sulla soglia di una tensione insostenibile destinata ad esplodere con la sparizione della pistola. Perché Iman, che rischia il carcere e l’ignominia della destituzione, è pronto a tutto, perfino ad applicare all’interno della sua amata famiglia le stesse tecniche inquisitorie riservate a chi si ribella agli ayatollah. Ed è in questo baratro di sospetti e accuse reciproche che la famiglia andrà in pezzi, frantumandosi in un crescendo che ricorda la follia di Jack Torrance in Shining.
Questa seconda parte del film purtroppo non è convincente quanto la prima. C’è un salto logico nella trasformazione di Iman da padre amorevole e comprensivo a sequestratore feroce di moglie e figlie. A meno che Rasoulof (ed è la domanda che vorrei fare al regista) non abbia voluto proiettare nella trasformazione parossistica del personaggio il regime stesso, trasfigurandolo in una metafora che avrebbe tuttavia richiesto, per essere compresa dallo spettatore, un’analisi psicologica più approfondita e una sceneggiatura all’altezza della prima parte del film. In questo salto del tutto incomprensibile rientra anche il finale che lascia interdetti tanto appare assurdo. «Ognuno di noi ha bisogno di dare un senso alla propria vita, e per me la cosa più importante e significativa nel viaggio della vita è la libertà. La mia passione è la creazione, il cinema, il poter girare. Le due cose non sono separabili. Questo è il motivo per cui lotto», dichiarava a Cannes il regista.
Gli attori e i tecnici che hanno fatto questo film sono ancora in Iran, molti nel mirino degli ayatollah o già arrestati.
Nonostante i suoi limiti, concordo con quanto scrisse Luigi Locatelli: magari non è un capolavoro, ma The Seed of the Sacred Fig è il film “più potente tra quelli visti a Cannes, il più necessario.”


