Arturo Belluardo e Roberto Cavallini
Una città allo specchio

Geometrie di Roma

Roma, le sue trasformazioni, ma soprattutto la sua immobilità iconografica, è al centro di "Passeggiate romane", un progetto fotografico di Roberto Cavallini. Che rivela il volto multiforme della città

Passeggiate romane è il work-in-progress di Roberto Cavallini che si snoda lungo più di quarantacinque anni di fotografia: armato di reflex o di smartphone, di Lomo o di macchina a soffietto, il fotoreporter laureato in sociologia ha percorso la città centrifuga in cui è nato, esplorandone traiettorie periferiche, iperboli urbanistiche e narrative, sottosuoli urbani di spessore incerto.

Cavallini ha vagato a piedi, in bicicletta, in auto, raccogliendo con lo sguardo e l’obiettivo una città straniata, quasi perversa, alla ricerca di un affresco finale e ha declinato questa sua collezione di visioni in un percorso lungo, nei progetti sui PEEP, nei reportage sulla comunità senegalese, nel Verde Ipocrita, per raccoglierne la summa nelle “Passeggiate Romane”.

Un percorso che, tutt’altro che compiuto, si sta articolando in varie tappe: un video con le musiche di Nicola Puglielli, un assaggio di mostra allo spazio Backspace, una performance attoriale di testi su Roma, fino ad arrivare a questo reportage in bianco e nero.

La sintesi che se ne ricava è, a una prima lettura, che la ricerca di visione unitaria della città abbia portato a un nulla di fatto. È lo stesso Cavallini a declamare la sua sconfitta, dichiarandosi, alla fine, incapace di ricomporre le tessere del mosaico romano, di trovare la trama da intarsio cosmatesco, di seguire le impronte, a distanza di sette secoli, dell’altro Cavallini, il fantomatico Pietro.

Ma è veramente una sconfitta? Ed è una sconfitta dello sguardo o della città in sé?

A guardarle senza didascalie, così come le proponiamo, le foto di Cavallini sembrano essere state scattate tutte allo stesso tempo, quel tempo infinito e inesistente di agostiniana memoria.

“Fermati attimo, perché sei bello” avrebbe detto Faust, a decretare la sua rovina. Fermati attimo perché sei tremendo: nell’incedere degli scatti, nel ritmo percussivo degli otturatori, si susseguono frame atemporali e identici: uguale è la sofferenza che trasmettono, sia nel ghigno ferito di una giovane homeless, sia nella pietà di Torbellamonaca, sia nella Piazza di Spagna strappata alla Rotella.

La visione di Cavallini è unitaria, ammantata di empatica misericordia. In ebraico, misericordia si dice “rahamim”, che alla lettera vuol dire “uteri”, e ben si connette la doppia valenza semantica del termine al lavoro del fotografo romano: la creazione e la misericordia sono strettamente legate nel suo sguardo, ed è attraverso la creazione artistica, che la misera città e i suoi miseri abitanti ricevono rappresentazione e dignità, un velo di humana pietas che ne esalta e ne accarezza, dolente, i drammi. Senza compiacimento o denuncia, ma con tenerezza, quasi.

Ma se è il filtro di Cavallini a renderne omogenea la visione, qual è la Città, la Capitale, la Roma che ci appare?

Partirei da una poesia di Valentino Zeichen, “Strati e tempi”:

L’archeologo semplifica
assimila la stratigrafia
alla stratopasticceria.
Nella storia di Roma
si sovrastano tre città:
la Roma Imperiale, la
capitale della Cristianità,
e ultima quella d’Italia.

Straniero, supponi di pescare
da un mazzo di carte: rovine,
catacombe, statue, fantasmi,
ogni figura funge da ticket
e ti guida nel suo tempo,
e altre in varii contempi
simili a tanti ascensori.

Roma ti fa sentire postumo
ma in taluni casi
puoi anche rinascere
da un parto d’ignoti
della Lupa capitolina.

Ma è veramente ancora così Roma?

È prevalente la sua verticalità ima e ctonia, come nella Crypta Balbi, che ci proietta in un viaggio contemporaneo dall’Antica Roma al Settecento? Si percepisce la posterità della città post-bimillenaria?

O se ne percepisce la verticalità opprimente del Potere, traslato dagli Imperatori al Papa Re con un falso editto dall’odore di porchetta viterbese? E poi dai Papi agli infami Savoia, dal Beccaio Umberto (viva sempre Gaetano Bresci) al folle e vigliacco Vittorio Emanuele, dalla Crozza Bucesca alla melliflua cozza andreottiana, dai bunga bunga alla recentiore ducetta ortofrutticola?

O ancora, sono altri gli strati del potere, quei gangli odevainiani e infetti, che attraverso la “terra di mezzo” di Carminati, connettevano le notti bianche veltroniane e gli spazzaneve alemanniani, a una criminalità spietata e camorrista, fatta di roghi umani, sparatorie, gambizzazioni?

E dov’è adesso la Roma Antica, sepolta dai Silos della Metro C e da orde di turisti dai braccialetti fosforescenti? E dov’è la Roma Cristiana, Una, Santa, Cattolica e Apostolica?

Per me, immigrato, Roma è sempre stata una città agnostica, atea quasi, tutta rinchiusa nella risposta di un botticellaro dei Fori Imperiali a una turista che gli chiedeva dove trovare una chiesa: “A signo’, come s’arivorta…”.

Roma ha espulso la spiritualità in un rutto ironico, da amatriciana dei Musei Vaticani, regalandola al turista-pellegrino che ingorga Fontana di Trevi con i bastoni per i selfie, che si fotografa davanti all’indicazione stradale per San Pietro anziché davanti alla Basilica. Piazza San Pietro stessa appare stuprata da labirinti di transenne giubilari e da sedie stinte da cinema all’aperto, da trionfi in ferrocemento e da didascalici migranti in bronzo. I Romani non abitano più le chiese, si sfaldano corrose nei loro intonaci scrostati dall’umidità di Acilia o nei trionfi tuscolani dei funerali dei Casamonica. Anche le chiese più trendy, come quelle di Meier a Tor Tre Teste o di Grenon e Sertogo alla Magliana, vengono sommerse da piante e madonne di plastica cinese, da luminarie intermittenti, dalle fauci di improbabili coccodrilli. E l’unica sacralità a sopravvivere sembra essere quella delle processioni sulle rampe dell’Ikea attorno al Tempio dei Mormoni a Settebagni.

Più che verticale, Roma sembra essere una torta spiaccicata tra il mare di Ostia e i Castelli, le cui fette dai gusti diversi sono unite da una contiguità melmosa.

E Roberto Cavallini con le sue foto traccia sentieri di sopravvivenza, semina pietre d’inciampo.
Prima fra tutte quella che, in ottone tronfio, declama “Proprietà privata”.
Privata di tutto.


Il testo è di Arturo Belluardo, le fotografie sono di Roberto Cavallini.

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