La prima puntata di un romanzo breve
Due ragazzi inquieti
«L’appuntamento, naturalmente, era una scusa. Sara voleva solo non concedergli troppo tempo, contingentare la sua reazione. Per questo ha inventato un impegno...»
Lei si mantiene calma per tutto il tempo, mentre in lui dopo le prime battute si fa strada un’agitazione crescente, via via più visibile nello sguardo che salta qua e là senza sapere dove posarsi, nelle mani che non riescono a star ferme, nel tremore che contrae i muscoli facciali attorno alle labbra e sotto gli zigomi. Siedono ai tavolini esterni di un caffè di piazza Dante. E’ ancora freddo per il dehors, i funghi a gas sono spenti, il cameriere – comparso in ritardo a prendere l’ordinazione, meravigliato di vederli là fuori, dove in questa stagione non si siede nessuno – se n’è andato senza accenderli. Sara e Davide restano i soli avventori sul palco lievemente rialzato rispetto al piano del marciapiede; il tendone ancora intriso della gelida pioggia mattutina, il legno umido del pianale coperto a chiazze d’un tappeto di foglie morte e i tavolini accatastati contro la ringhiera conferiscono al dehors l’aspetto frusto e deserto di uno spazio in disuso. E’ lei che ha scelto di fermarsi lì, al riparo da orecchie e occhi indiscreti. Ha da comunicargli qualcosa d’importante.
Quando il cameriere fa ritorno, dieci minuti dopo, e depone sul tavolo il vassoio con le brioches e le tazze fumanti dei cappuccini, l’essenziale è già stato detto. Le parole di lei sono state sobrie, esaurienti. Calibrate allo scopo di non offrire spazio a repliche. Potrebbe essere una questione chiusa. La colazione, quindi, si svolge in silenzio. Sara non ha nulla da aggiungere. Davide ne avrebbe, di cose da dire, ma l’emozione è troppa, gli toglie capacità di parola. Attraversano in silenzio, separati, la coda di quell’incontro, immersi ciascuno nella la propria personale visione di ciò che è appena accaduto. La ricomparsa del cameriere, che sparecchia rapido e se ne va, sembra apporre il sigillo finale alla scena. Sara fa per alzarsi.
“E adesso dove vai?” Esclama lui, quasi spaventato.
“Ho quell’appuntamento. Te l’avevo detto.”
“Non andartene così. Siediti. Parliamone.”
“Pochi minuti,” ribatte Sara. “O farò tardi. Non devi darmi una risposta subito.”
Ma lui non vuol lasciare la questione in sospeso, neanche per poche ore. Perciò, anche se ancora non si sente pronto, capisce che deve buttarsi e spara tutto d’un fiato: “Non devi farlo per forza, non hai solo quella strada, ci sono altre soluzioni!”
“Per esempio?”
“Per esempio il contrario.”
“Lo dici per me?”
“Per te, per me, per tutto. Pensaci.”
“Non lo sai, non ti rendi ancora conto. Io sì. Ho avuto tempo per riflettere.”
“Tempo! Quarantott’ore!”
“Ben più dei dieci minuti che hai avuto tu. Non è cosa da affrontare d’impulso. Prenditi la giornata, d’accordo? Ragiona. Arriverai alle mie conclusioni.”
“Ma non ha senso ragionarci ognuno per conto suo!” Ribatte Davide, quasi con rabbia. “Dobbiamo farlo insieme!” La fissa, deciso, e tace. Nella sua ostilità, le sta facendo un’offerta.
Il colpo va a segno, a Davide pare di cogliere una prima piccola crepa nelle difese che Sara ha innalzato. Ce l’ha con lei. Dopo la notizia – trasmessagli con quella sorta di comunicato stampa – la faccenda sembra posta interamente fuori dal suo controllo: nel presentargli al contempo problema e soluzione, Sara ha messo tutte le carte in tavola, non gliene ha lasciata alcuna. Sicché lui, per reazione, si sente spinto a sparigliare, trovare il modo di ritagliarsi uno spazio. Non saprebbe dire se per amor proprio, perché sente una responsabilità, intravede una possibilità, oppure semplicemente perché non vuol lasciarle questo vantaggio.
“Beh, allora parla,” replica lei, riscuotendosi. “Io quel che penso te l’ho già detto. Volevo lasciarti un po’ di tempo per rifletterci, ma…”
E così, dopo averla fronteggiata, ora è lui che deve dire la sua e farlo in fretta. Lei resta calma, in attesa. Non vuole irritarlo. Nessun senso in una lite ora. Verrà probabilmente anche quel momento, quando litigare avrà senso. Ma non adesso, si dice, ora sta’ solo concentrata su quel che hai deciso. Quanto a Davide, dato che ha insistito, occorre semplicemente che si pronunci. Fissare anche da parte sua le condizioni iniziali. Possibilmente in poche, chiare parole, senza star tanto a girarci intorno.
Le parole di Davide, invece, sono parecchie più del necessario e non chiariscono molto. Confondono, piuttosto. Inoltre non la sorprendono affatto, lui non ci riesce mai. Trasparente come acqua fresca e altrettanto banale. L’emozione che è così incapace di nascondere, poi, è talmente irritante, solo rumore di fondo. Continua a cercare un bandolo, agitandosi su quella sedia. Ormai gli tremano vistosamente le mani. Quando le pare di avergli dato corda a sufficienza (e nota anche, dentro di sé, che lui non ne ha fatto buon uso) gli ricorda l’appuntamento.
“Adesso devo proprio andare.”
“Resta ancora. Parliamone.”
“Non ora. Si fa tardi. Ci vediamo nel pomeriggio, all’università.”
“Lo sai che per me è impossibile, nel pomeriggio.”
“Allora stasera. Ceniamo insieme, se vuoi. Abbiamo tempo. Non dobbiamo decidere ora.”
Raccoglie la sua roba, infila nella borsa il pacchetto di sigarette e l’accendino, impugna l’ombrellino agganciato alla spalliera della sedia e s’alza abbottonandosi il paltò. Un rapido cenno di saluto, che non contempla baci né alcun contatto. S’allontana traversando la piazza in direzione dell’edificio di recente restauro che biancheggia oltre i giardinetti. Sull’antico fregio frontale, rinnovato e lustro ancorché improprio, è scolpita l’iscrizione: ‘Casse di Risparmio Postali’. L’edificio, invece, ospita la direzione centrale dei servizi.
Rimasto solo al tavolino del caffè, Davide s’attarda a pensare. Con lo scorrere dei minuti, sente maturare dentro di sé quell’idea lanciata d’impulso, un po’ come si getta il cuore oltre l’ostacolo. In realtà ha pensieri più chiari di quanto le sue parole siano state capaci di esprimere. E’ stata solo una prima reazione. Le sue prime reazioni sono in genere deludenti. Ma migliorano col tempo. Lo sa. E lo sa anche lei, si dice Davide, ed è proprio questo che la preoccupa. Il sasso che Sara ha scagliato, rotolando, provoca in lui degli effetti. Accumulo di motivazioni, calcolo di conseguenze. Congetture via via più coese trascinate a valle nella discesa. Una massa che ha bisogno di tempo per addensarsi. Pur non essendo svelto quanto lei, ritiene di non essere meno determinato. Sono queste, nell’opinione di Davide, le condizioni iniziali, quelle che delineano i rapporti in partenza. A differenza di quel che crede lei.
In realtà ne omette parecchi, di elementi, in questa prima valutazione. Per esempio il fatto che lei è ricca e lui povero. Ma quel primo colloquio definisce comunque delle posizioni. Ha risposto, non le ha lasciato campo libero. Lo svolgimento prevede ancora diverse soluzioni possibili. Non è neanche detto che debba esservi per forza un esito finale.
L’appuntamento, naturalmente, era una scusa. Sara voleva solo non concedergli troppo tempo, contingentare la sua reazione. Per questo ha inventato un impegno. Ora, camminando lungo via Merulana, ripensa al colloquio appena intercorso e alle scelte che apre. E c’è, naturalmente, la questione in sé, che mantiene dei margini d’indipendenza rispetto al modo in cui lei e Davide, concordemente o meno, decideranno d’affrontarla. Le cose hanno un loro corso, un vantaggio difficile da colmare. Tu pensi di poterle indirizzare, di avere un certo campo di scelte. Ma t’accorgi, perlopiù a posteriori, che quel campo era illusorio e che le tue azioni sono state assai meno libere di quanto credevi. Alla fin fine hai soltanto eseguito, come altri in circostanze simili, ciò ch’esse avevano già in serbo per te. Questo non le sfugge, purtuttavia ha bisogno di riflettere, valutare, soppesare. Nell’opinione comune, pare che serva.
Quindi piega a sinistra, per via Mecenate, direzione Colle Oppio. Entra nel parco dall’ingresso delle Terme di Traiano, l’austera casa di cultura egizia. Passeggia lungo il viale interno del parco, lasciandosi attrarre dalla visuale contrapposta di villa Celimontana, il cui scorcio si staglia in lontananza, sulle pendici del colle che le dà il nome. Si lascia a sinistra il chiosco di Mustafà, l’anziano barista marocchino che è ormai parte integrante del parco, e prosegue fino all’affaccio sul Colosseo, in fondo al viale. Più che ordinare le idee, intanto, le lascia correre. Quel parco e il tema in discussione si associano curiosamente al ricordo di un altro parco, in un altro quartiere, tanti anni fa…
Calò un po’ di tristezza, dopo. Per sdrammatizzare provarono a scherzarci sopra, risalendo il pratone del laghetto verso l’ingresso dei cavalli. Anche in quell’occasione il suo partner maschile era emotivamente scosso, molto più di lei, che invece era seria, taciturna, fin troppo calma per la sua età. Pur tanto giovane, già così controllata. Avevano entrambi le scarpe infangate. Era bagnato, lungo i sentieri dell’area chiusa di villa Ada. Sara aveva quindici anni e un problema in meno. Quell’angolo di parco, dove tornò spesso negli anni che seguirono, per un certo tempo lo elesse a luogo in cui raccogliere le idee.
Lui fu solo una comparsa. Un compagno di scuola carino e timido, rincontrato in quei giorni di limbo che precedono il rientro in classe. Settembre, la città rassegnata riprende i suoi ritmi autunnali. Giornate ancora calde che i ragazzi trascorrono davanti ai cancelli chiusi della scuola, a bivaccare sulle panchine dei giardinetti e riconoscersi dopo la diaspora estiva. Poi l’anno riparte, iniziano le lezioni, il tran tran stagionale incardina consuetudini che prendono il sopravvento e impongono un ordine alle loro giornate.
Nelle settimane che seguirono rincontrò spesso quel ragazzino per i corridoi del liceo. Poi sotto casa, in palestra, nei dintorni del British, dove andava a scuola d’inglese. Se lo trovava tra i piedi dappertutto. Quel rompiscatole. Le si trascinò dietro con un’aria offesa e implorante, accoppiata a sguardi famelici che mandavano Sara su tutte le furie. Lo trattò male. Finché, poco prima di Natale, grazie al cielo si tolse di torno: la sua famiglia traslocò in un altro quartiere e lui cambiò scuola.
Nel frattempo, Sara tentò diversi altri esperimenti con maschi via via più grandi: un paio di ragazzi annoverati tra i belli della scuola appartenenti alla terza liceo della sua sezione; poi maschi veramente grandi – così vedeva, allora, gli studenti del primo o del second’anno d’università, gente che ormai guidava una Dyane o una Deux Chevaux e offriva passaggi alle ex-compagne all’uscita dei licei di quartiere. Finché l’anno della maturità si spinse un po’ oltre, mettendosi alla prova con un vecchio di quarant’anni che lavorava in una galleria, era sposato e aveva una figlia.
Era allora era una diciottenne magrolina e diafana, carina ma non appariscente, capelli castani tendenti al rossiccio, un viso dai tratti delicati cosparso d’efelidi. Non curava molto il suo aspetto, portava sempre jeans scoloriti e grandi bluse oversize, giacconi e zainetti comprati ai mercatini dell’usato. A un primo sguardo, una ragazzina ombrosa e forse un po’ viziata dei quartieri buoni, ma non snob, dall’adolescenza probabilmente più tormentata del necessario.
Il padre era un avvocato penalista molto noto in città. Un uomo facoltoso e assai impegnato, già in là con gli anni. S’era sposato tardi con una donna parecchio più giovane. Al terzo anno di matrimonio ebbero Sara. Lei non volle più figli, dopo. La madre di Sara proveniva da una ricca famiglia del settentrione con qualche quarto di nobiltà nel sangue. Una donna brillante e frivola, amante della vita di società, che non faceva che passare da un cocktail d’ambasciata a una serata di beneficienza, da un vernissage di grido a qualche altra occasione mondana.
Dopo i primi anni di matrimonio e la nascita di Sara, pur convivendo sotto lo stesso tetto – un vastissimo attico in via di Villa Grazioli, con molte camere e molte sale ben arredate, quasi tutte pressoché inutilizzate – lui e lei cominciarono a condurre vite separate. Lui stava molto poco in casa, si divideva tra il tribunale e lo studio e spesso non rientrava neppure per dormire. Lei appariva in pubblico con uomini sempre diversi e Sara affinò fin dall’infanzia la peculiare capacità di distinguere quelli che erano semplici corteggiatori della madre dai suoi amanti, e in quale preciso momento i primi cambiavano status e migravano nella categoria dei secondi. In casa c’era del personale di servitù, la presenza domestica più rassicurante: una bambinaia veneta che accompagnò Sara fino all’adolescenza; e una coppia del meridione, che si occupava delle pulizie, della manutenzione della casa e del suo garage pieno di macchine.
La storia col quarantenne significò molto per lei. L’uomo si chiamava Mario, una via di mezzo tra un gallerista e un critico. Frequentava i caffè dove s’incontrano gli artisti, pubblicava di quando in quando articoli su riviste, curava le mostre di una galleria in cui aveva una modesta partecipazione e ne scriveva i cataloghi. A Sara il suo modo di parlare e comportarsi pareva affascinante. Vestiva sempre di scuro, portava i capelli lunghi e una folta barba. Aveva una voce profonda e avvolgente, arrochita dal fumo. Fu lui a farle leggere i primi libri importanti. La portava a vedere spettacoli teatrali in buie cantine dove si batteva i denti dal freddo rannicchiati su scomode panche; e film che solo qualche cineclub nascosto negli anfratti della città osava proiettare.
“Una pariolina. Una pariolina viziata in cerca d’esperienze.” Questa fu la prima impressione che Davide ebbe di lei, quando si conobbero, all’università, terz’anno di architettura. Aveva un passato abbastanza duro alle spalle e nessuna intenzione di fare sconti ai più fortunati, nei suoi giudizi. A pelle, provò subito dell’antipatia per quella mingherlina dall’aria blasé che l’abbordò con irritante disinvoltura dopo l’esame.
Composizione architettonica due. Nell’aula ad anfiteatro le ripide scalinate precipitavano sul palco centrale, fiancheggiate da vecchi banchi in legno sovrastanti la cattedra, chiusa alle spalle da una parete di lavagne. Seduti in basso, un certo numero di studenti aspettavano di sostenere l’esame o erano venuti ad assistervi in vista dei prossimi appelli.
Davide sedeva da solo in una delle file più alte, posizione imprudentemente esposta. Aveva un aspetto forestiero, con quella faccia bianca e rossa da campagnolo, sporcata da un acceno di barba mal fatta, indosso abiti che nessuno dei suoi coetanei avrebbe mai portato. Il vestito buono, che metteva per dare gli esami, pareva una vecchia tenuta da caccia: giacca di velluto a coste con le toppe ai gomiti, un panciotto di pelle che aveva visto tempi migliori, calzoni larghi di fustagno e scarponcini coi lacci alla caviglia. Non aveva ancora superato quell’handicap da provinciale che gli impediva di presentarsi a un esame col vestito di tutti i giorni. Pur sapendo d’essere ridicolo, si vergognava meno abbigliato così.
Anche per questo lo notò. Sara sedeva ai primi banchi. Accanto a lei gli studenti confabulavano commentando sottovoce le domande, sfogliando e scambiandosi appunti e dispense, sostenendosi a vicenda. Quel ragazzo che se ne stava lassù in disparte, isolato, le parve ritrarre in modo sfrontato, forse un po’ ingenuo, una condizione che anche lei conosceva bene. La percezione d’essere scissi rispetto al proprio ambiente. Non legava con i coetanei, nemmeno lui. Ma forse, invece, si sbagliava. Poteva semplicemente essere uno che ha quel modo di concentrarsi prima dell’esame, che cerca dentro di sé – e non nel confronto, nelle informazioni ed emozioni che conviene scambiare coi propri pari – le risorse per affrontare una prova.
Toccò a lei. Le domande furono facili. Prese un altro dei trenta e lode che costellavano il suo libretto e si ritirò tra i banchi intermedi dell’anfiteatro, respingendo gli approcci dei compagni che si congratulavano con lei. Ma Davide ebbe un risultato persino migliore. Fu l’ultimo dell’appello. Sara, tra i pochi rimasti, non si perse una parola dell’esame che lui superò in scioltezza, benché le domande fossero più difficili di quelle che avevano rivolto a lei. Fu premiato col suo stesso massimo voto, ma il professore sentì di dover aggiungere qualcosa. Quando andò a trascriverlo, commentò:
“Questo libretto… non è all’altezza dell’esame sostenuto oggi. Come mai?”
Davide bofonchiò ragioni vaghe, visibilmente infastidito dalla domanda. Il professore non insistette e gli restituì il libretto.
Mezz’ora dopo erano seduti uno di fronte all’altra nella squallida saletta interna di un caffè a due passi dalla facoltà. Era stata lei a prendere l’iniziativa. A conclusione dell’esame, s’era avvicinata mentre lui raccoglieva la sua roba e l’infilava frettolosamente dentro lo zaino. L’aveva invitato a bere qualcosa al bar per festeggiare i due soli trenta e lode dalla sessione. “Offro io, si capisce,” aveva detto. Nell’affinità istintiva che sentiva per quel ragazzo, questo tema fu subito presente tra loro.
Era passato da poco mezzogiorno, il bar era deserto. Quando si presentò il cameriere – un piccoletto senza collo, il volto incassato tra le spalle, capelli tinti, voce sgradevole – Sara ordinò uno spritz. Davide optò per una birretta. Il cameriere tornò con un vassoio di noccioline, olive e altra roba.
“Non m’è parso d’averti mai visto, a lezione,” disse Sara.
“Non vengo a lezione. Non frequento.”
“Neanche le esercitazioni? E come fai, coi disegni?”
“Ho un tecnigrafo a casa. M’arrangio.”
“Ce l’ho anch’io il tecnigrafo, che c’entra? Io parlo di far vedere le tue cose a qualcun altro, avere un confronto, correggere gli errori, migliorarsi… come impari, altrimenti?”
“Non così. Ma ci passo un sacco di tempo, in facoltà, non credere. E anch’io non t’ho mai vista.”
“A far che? Se non segui le lezioni, non vai alle esercitazioni…”
“Leggo.”
“Leggi… Sei uno di quei topi di biblioteca che passano le giornate a rovistare tra gli scaffali del dipartimento?”
“Parecchio tempo, sì. Uno di quei topi.”
Silenzio. Lo squallore della saletta illuminata da gelidi neon la innervosiva. Vaga irritazione acuita dalle olive rancide e dallo spritz scadente. Quel tizio era decisamente antipatico. Si pentì d’averlo invitato.
“Non studi con nessuno?”
“No.”
“E non frequenti mai una lezione, né un’esercitazione, né nessuno degli altri studenti…”
“No.”
“Per questo, forse, ‘il tuo libretto non è all’altezza dell’esame sostenuto oggi’…”
“Non c’entra. Quello è un ficcanaso. Ha diritto di darmi il voto che vuole, non di criticare il mio libretto.”
“Perché te la prendi tanto? In fondo, ti ha fatto un complimento…”
“Non mi piacciono, i complimenti.”
“Né riceverne né farne, a quanto pare.”
“Cos’è, sei gelosa di quel che m’ha detto il professore?”
“Figurati, io non sono gelosa di niente… Hai proprio trovato quella delle gelosie e delle invidie…”
Sicché il loro primo incontro non fu proprio un successo. Quella goffaggine e durezza di modi che in città lo isolava dagli altri – uno dei suoi crucci maggiori – Davide la doveva in parte alle sue origini burine. La famiglia proveniva da Vitorchiano, alto Lazio, paesino arroccato su una rupe ai piedi dei Cimini, dove Monicelli girò alcune scene di Brancaleone. L’insediamento, pare, è antico. Un arrocco difensivo di pastori e contadini risalente all’età del bronzo, che non ha perso – passando per etruschi, romani, barbari e papi – la propensione iniziale alla conservazione e al presidio.
I Sarni abitavano un cupo fabbricato in peperino – la pietra locale – a pochi passi dalla piazza. Il podere era a qualche chilometro dal paese. Una vigna, un uliveto; sulla cima del colle le stalle, i fienili e la casa colonica che la famiglia utilizzava come alloggio secondario durante le giornate di lavoro nei campi; dietro, una corte cintata con l’aia, le stie di conigli e altri animali da cortile. La fattoria forniva prodotti ruspanti – carni, insaccati, formaggi, olio, vino – a un certo numero di ristoranti in zona e andava espandendosi presso qualche negozietto di qualità giù in capitale. Nel corso del tempo i metodi di coltivazione s’erano evoluti, le colture erano mutate, il mercato cui erano orientate s’era trasformato. Ma i Sarni erano sempre rimasti legati a quel pezzo di terra, oltre due secoli di tradizione contadina.
Nei ricordi d’infanzia di Davide, però, la campagna compare raramente. Mentre il fratello maggiore, Giuseppe, di tre anni più grande, accompagnava i genitori nei campi già in tenerissima età, imparava a lavorare nell’orto, accudire le bestie, mungere, seminare, innestare, Davide stava perlopiù in paese, a Vitorchiano. Una ragazza alla pari appartenente a un ramo secondario della famiglia si occupava di lui. L’accompagnava in piazza, in chiesa, in pasticceria, come il figlio del farmacista o del notaio, non di contadini.
A scuola, fin dal primo giorno i genitori tennero molto al fatto che prendesse buoni voti. Del profitto di Giuseppe non si curavano: un contadino dell’istruzione può anche fare a meno. I due fratelli frequentarono elementari e medie a Vitorchiano, a tre classi di distanza uno dall’altro. Ma mentre Giuseppe, fatti sbrigativamente i compiti, nel pomeriggio andava coi genitori in campagna a lavorare, Davide fu mandato a imparare l’inglese presso una compaesana, una comare vissuta per anni in America e tornata, vedova, a morirsene al suo paesello. Studiò anche musica, clarinetto, presso la banda del paese. La famiglia fece degli sforzi per dargli un’istruzione, ampliare le sue conoscenze. E tenerlo lontano dal podere.
Il maggiorasco è una tradizione ormai pressoché estinta in Italia. Ma resiste, è la norma successoria dominante, in molti paesi in via di sviluppo. Nelle economie feudali o di sussistenza il principio di conservare l’unità dei beni trasmettendoli in esclusiva al primogenito maschio ha un suo perché: la proprietà è difficile da conquistare, chi ce l’ha deve conservarla; e si conserva meglio, unita, ha più possibilità di durare. Tanto che, in modo episodico, il maggiorasco sopravvive anche da noi. Nato nell’aristocrazia – che una volta era la sola detentrice di beni al sole – la sua esistenza ormai residuale è diffusa soprattutto nei ceti popolari contadini, i più legati alla terra. E si concentra nelle periferie: zone interne appenniniche centro-meridionali, isole; ma anche al nord, è per esempio una tradizione in uso in certi masi del Sud-Tirolo.
Fine prima puntata (continua).
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


