Giuliano Compagno
Alla Sala Umberto di Roma

Maestro Jannacci

Lo spettacolo su Enzo Jannacci costruito da Max Paiella e Simone Colombari (con la regia di Lorenzo Gioielli) è un grande omaggio a un genio. Da non dimenticare

Enzo Jannacci nasce “avviticchiato, prevalentemente a Milano”, nel giugno del 1945, almeno è ciò che annuncia nel cominciare la prima puntata Rai Limportante è esagerare. E subito si attribuisce l’indole di “uomo in fuga”. Da chi, non lo sappiamo; da cosa, posso immaginarlo. Cosa avrà voluto dire? “Niente! Io non voglio dire mai niente!”

Ovviamente non è vero, Enzo Jannacci ha detto talmente tanto che più non poteva, perché è cresciuto e vissuto in una stupenda complessità interiore, e allora entrando alla Sala Umberto per vedere Jannacci e dintorni (prodotto da Alessandro Longobardi e Giandomenico Ciaramella, in scena fino a domenica 1° dicembre e poi in onda su Raiplay, grazie alla squadra multipiattaforma di Radiorai) con Max Paiella e Simone Colombari, regia di Lorenzo Gioielli – tre fuoriclasse messi insieme – pensavo che sarebbe stato uno spettacolo molto valido. Mi sbagliavo: era un’opera per musica e voci che ha superato, per comprensione, profondità e sincerità ogni mia attesa. Un lavoro che mi ha ricordato quei magistrali interpreti di un tempo che, per compiere un’impresa difficile, ne uscivano attori, musicisti, ballerini occasionali e cantanti eccellenti: a raccontare di un tempo già perduto e di un artista che sempre lo procedeva, a rendere un cuore e un volto a Enzo Jannacci, uno che manca quant’altri mai! Per ben rifinire gesti e tempi di quel duo incontenibile ci voleva un regista capace di guidare i passi, le parole e la presenza, fin nei loro sguardi, di Paiella e Colombari. Del resto, la compagnia del loro palcoscenico incarna un’amicizia entro la quale si condivide ogni intuito e ogni emozione. Da parte sua Gioielli ha dato spazio e ritmo a un inesausto passaggio tra canzoni e frasi, con la maestria di non pesare mai. Insomma, avete presente il gravame di quei registi d’opera che persino dietro Gioachino Rossini sgomitano per sorprendere la loro platea? Ecco ora immaginate l’esatto contrario e gusterete un equilibrio di lungo un’ora e mezza con Max e Simone che, per narrare davvero Jannacci, parevano inverare una bella frase di Roland Barthes: «Nessun potere, un po’ di sapere e quanto più sapore possibile».

Jannacci e dintorni, sintesi di un autore che sempre esce da sé per poi rientrarvi dalla porta di un’arte differente che forse non conosceva neanche lui; parabola di un artista che sapeva giocare con la dolcezza di un angelo, volentieri sospeso tra chiarezza e incomprensione, tra comicità e tragedia, tra sregolatezza e genialità, un po’ divino e molto molto umano.

Jannacci e il suo cuore, da un lato l’entusiasmo che canzone dopo canzone lo renderà uno tipo del tutto differente, dall’altro la sala operatoria a cui ambisce dopo la laurea in medicina e molti esami durante i quali la commissione lo sospetta cantante più che studioso, comico più che chirurgo. Quei piccoli assistenti non potevano immaginare che quello studente sarebbe un giorno partito per il Sudafrica e ci sarebbe rimasto per qualche anno a fianco di Chris Bernard.

Jannacci e dintorni, e Max e Simone partono dal suo duplice volto: del medico attento e solerte con i suoi pazienti e del saltimbanco, come in fondo amava essere definito, probabilmente perché, di quel ruolo attribuitogli con sufficienza, conosceva il prestigio: che il termine saltimbanco ebbe origine nel XVI secolo e valeva a dire acrobata e giocatore di destrezza, teatrico, circense e letterato. Tali furono considerati Niccolò Tommaseo (“Il bene precipitosamente afferrato fa male”.) e Aldo Palazzeschi (“Considero il telefono una violazione di domicilio”). E allora ci stava che Jannacci chiudesse il trittico. Me la sto inventando? Sì, perché c’è un terzo elemento con cui Jannacci concilia dolcemente due vite: quella attiva e quella privata, con una moglie che si gloriava del suo medico e con un figlio che prima lo sentì molto vicino e dopo un po’ si rese conto di avere un padre molto importante. Non solo famoso, importante. E Paolo Jannacci, che questo spettacolo lo ha sostenuto e apprezzato, crescerà bene senza l’ambizione di superare il padre ma con la sua musica dentro, con un pianoforte sotto le dita e una capacità originale di dare asilo all’arte e al gioco. Talis padre ovviamente quasi, magari nelle commosse espressioni alla memoria e nelle canzoni che non lo copiano ma tanto ereditano dalla sensibilità del pater.

Ecco, Colombari e Paiella sono riusciti narrare la stupefacente complessità di uno che non era nato musicista, né cantante, né comico, eppure quando appariva in pubblico triplicava il suo ruolo con uno stile immaginifico e imprendibile. E unico.

Jannacci e dintorni, di una città e di un mondo artistico che lo intuisce e lo adotta creativamente, ciascuno attribuendogli un carattere a sé. Con Dario Fo, che credette in lui per primo e che ne venne ricambiato da una stima viscerale; con Diego Abatantuono, che lo ripenserà con dolore; con Renato e con Cochi, a lui legati da un amore reciproco e da un non sense umoristico parecchio somigliante; con Felice Andreasi, seduto nel salotto in casa del suo amico più ospitale; con Teo Teocoli, che recita il paziente stolto in una esilarante gag; con Umberto Eco, palato fine di un filosofo assai spiritoso; con Paolo Conte, di cui arrangia e interpreta Bartali; con Roberto Vecchioni e il loro duettare perché La vita L’è bèla; con Paolo Rossi, tormentato e scatenato come nessuno; con Giorgio Gaber, per Enzo l’autorevole Gaber, con cui recitò Aspettando Godot e formerà “I due Corsari”, insieme provando i loro primi sketch rockettari; con il grande Beppe Viola, scrivendo i dialoghi di Romanzo popolare, che sarà un film strepitoso; con Carlo Hintermann, forse il suo amico del cuore, attore di Rossellini, Risi, Zeffirelli Bragaglia e John Huston; infine con lo splendente volto di Monica Vitti, turbata nell’ascoltare Vincenzina. Al termine di questa lista amorevole, Paolo Jannacci scrive: «Tutte queste personalità e mille altre che non ho citato, per ovvi motivi di memoria, hanno collaborato, sì sono ispirate e hanno vissuto (nel senso pieno della parola) con Enzo».

Jannacci e quei suoi innumerevoli dintorni, ove accedette in punta di piedi e per amore di quell’epoca di fantasia, così estranea alla rettitudine della milanesità anni ‘60. Ciascuna diversa dalle altre, le sue collaborazioni con i vari saltimbanchi della sua risma andranno a comporre un’esaltante orchestra per voce sola. Era stato a suo modo Dario Fo a gridare in Rai affinché puntassero nel suo giovane amico (e nel dicembre prossimo, dopo 60 anni, Raiplay manderà in onda lo spettacolo). E quando Celentano lo invita a Rockpolitik assieme a Gaber, Fo e Albanese, sarà lui a guidare canto e musica del gruppo durante Ho visto un re.

Max Paiella e Simone Colombari hanno fatto volare un’ora e mezza davanti a un pubblico a bocca aperta, anch’esso nei dintorni di Jannacci per ricordarlo e per amarlo un’altra volta ancora, esaltato, intenerito e commosso. E loro due non di meno: nel chiudere La fotografia, una delle sue canzoni più forti, in ricordo di un ragazzino assassinato dalla “sporca guerra della mafierìa”, a Paiella tremano le labbra e Colombari trattiene il pianto. Jannacci e dintorni è stato molto altro ancora: la tristezza per un tempo bello ma trascorso, il rimpianto di un artista irripetibile, il senso di libertà e di pura trasgressione che Enzo ha regalato a tutti noi. Prima dello spettacolo, con Lorenzo, Max e Simone stavamo seduti a prendere un tè e a cercare l’idea di una generazione ribelle e solidale, quando i cantautori si passavano gli spartito e condividevano il loro mestiere. Forse volevano assieme riscattare la guerra e la disperazione con i sorrisi e le smorfie di cui erano capaci, e forse ci riuscirono per qualche decennio. Amici e sodali che lasceranno il loro pensiero nel docufilm di Giorgio Verdelli: Enzo Jannacci, vengo anchio. E val la pena leggerli, per capire ancor meglio chi fosse…

“I diversi sono quelli per i quali noi siamo diversi.” Enzo.
“Il più grande genio musicale che avevamo in Italia.” Roberto Vecchioni.
“E poi mi sono accorto che papà aveva qualcosa di speciale.” Paolo Jannacci.
“Enzo era una persona con un carattere artistico unico.” Dalia Gaberscich.
“Enzo è stato un maestro, un artista e un amico.” Claudio Bisio.
“Quel che racconta Jannacci non è collocabile nel tempo nel luogo. Jannacci è un classico.” Elio.
“Ho avuto la fortuna di incontrare Enzo Jannacci, il più grande cantautore che l’Italia abbia mai espresso.” Paolo Conte.
“La sua è poesia e dunque rimane del tempo.” Nino Frassica.
“Enzo per me era un padre, e anche un fratello minore.” Paolo Rossi.
“Sono sempre stato un grande ammiratore di Enzo Jannacci.” Francesco Guccini.
“Enzo era il Buster Keaton dello spettacolo italiano.” Massimo Martelli.
“Enzo Jannacci ha molto cuore, è vero, ma ha soprattutto cervello.” Dario Fo.
“Era un periodo che nessuno mi poteva vedere ed Enzo, che per me era un artista e una leggenda, m’invitò a una sua trasmissione per cantare insieme Vita spericolata.” Vasco Rossi.
“Enzo era veramente un talent scout, perché assemblava i talenti.” Diego Abatantuono.
“Posso dire una cosa? Enzo Jannacci è il numero uno!” Renzo Arbore.
“Che cos’è che mi manca? La sua energia, la sua risata e la sua voce che faceva vibrare i muri, faceva vibrare l’anima, e mi manca non poter più sorridere dei guai con lui, che era la cosa che ci faceva meglio” Paolo Jannacci.

Ho immaginato di nuovo che Enzo ci rispondesse così da una sala d’incisione… «Lettera da lontano, lettera senza firma, lettera con pochi argomenti, lettera per mio figlio che mi ha guardato cantare come se fossi io il figlio, lettera per il tempo che a vent’anni nessuno ti dice che vola via con un tipo particolare di vento…».


La fotografia dello spettacolo è di Chiara Lucarelli.

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