Attilio Del Giudice
Quattro flash narrativi

Quanto ai sentimenti

«Le mie parole, insomma, non so se sono state giuste, ma, che volete? Forse hanno aggiustato una drammatica traiettoria del destino...»

Fratellanza. Lui mi guardava, ma non diceva una parola. Raul è nero. I genitori vennero dal Mali sette anni fa. È intelligentissimo e a scuola va bene in tutte le materie, specialmente in Matematica, dove viene considerato quasi un genio. È un buon calciatore e al centro campo costruisce il gioco con talento e generosità.

Siamo amici intimi e gli voglio bene come a un fratello. Per futili motivi abbiamo litigato e mi sono sfuggite espressioni assai ingiuriose.

In verità mi vergogno a ripetervi quelle brutte parole, ma se non voglio tradire la verità, ve le devo riportare letteralmente. Gli ho detto: “Hai voglia a fare l’italiano e a sgobbare sui libri, resti sempre uno sporco selvaggio”.

Lui non ha risposto, mi ha guardato con un po’ di ironia e, forse, in quello sguardo c’era più misericordia che rancore.

Io mi sono subito pentito, ma non ho avuto il coraggio di chiedere scusa. Ho temuto che non accettasse il mio pentimento e mi dicesse cose sgradevoli, tali che il mio orgoglio di italiano mi impedisse di reclamare ulteriormente il perdono.

Camminavamo, così, senza parlare, un po’ distanziati in quella strada scura, che, alla fine, come per una metafora, si apre in uno slargo pieno di luce. E proprio in quello slargo, a un certo punto, lui ha detto: “Io conosco i tuoi pensieri”.

“E quali sarebbero?”

“Sarebbero che tu vorresti chiedere scusa, ma hai paura che io ti risponda male e il tuo orgoglio ti impedirebbe poi di chiedere ancora.”

“Come hai fatto a indovinare?”

“Hai visto? Uno sporco negro selvaggio può leggere il pensiero…”

Sono scoppiato a piangere e l’ho abbracciato. Lui mi ha accarezzato la nuca. “Ascolta – ha detto: “Non ti preoccupare, le parole non sempre corrispondono ai sentimenti, praticamente, spesso, la bocca si sente più solidale al culo che all’anima”.

* * *

Ivan. Sono stati scelti per i festeggiamenti del centesimo anniversario dell’Istituto Mazzini, il più prestigioso della città. Vengono chiamati i tamburini.

Vestiti di bianco coi bottoni d’oro, i cappelli con la visiera come ufficialetti e i tamburi a tracolla.

Il secondo della fila si chiama Ivan, lo conosco, è dolce e bellissimo. Dicono che somigli al padre Eugenio.

Non mi crederete, ma, anch’ìo, che so della sua vera paternità, ravviso, nei tratti del volto di Ivan, specialmente ora, in questa sfilata, una somiglianza con Eugenio. È una strana storia.

Da adolescente ero innamorato di Mariapia, la madre di Ivan, non ebbi mai il coraggio di palesare questo sentimento e quando mi annunciò il fidanzamento con Eugenio, ne ebbi un così grave dolore che mi ammalai. Soffocai lo struggimento lentamente e custodii quell’amore segreto in fondo alla coscienza. Col passare degli anni, una forte inalterabile amicizia germinò al suo posto.

“Devo parlarti – Disse un giorno al telefono Mariapia – è importante”.

Ci vedemmo dopo pochi minuti. Entrò nella mia macchina e parlò per due ore con la ricchezza di eloquio che conoscevo. Emersero considerazioni di varia natura, morali soprattutto e il turbamento di Mariapia mi sembrò autentico e doloroso. Che era successo? Durante il periodo in cui Eugenio era per lavoro a Dubai, la mia amica aveva conosciuto un artista. Un uomo di grande fascino col quale andò a cena una sola volta e una sola volta a letto. Sterile per otto anni di matrimonio, era rimasta incinta dalla trasgressione di un eros breve e segnato dalla colpa, rendendo, però, Eugenio, inconsapevolmente, l’uomo più felice del mondo. A me chiedeva un consiglio, che certo avrebbe seguito: svelare al marito la vera paternità di Ivan o evitargli un terribile trauma?

“Ascoltami –le dissi –: hai sempre amato Eugenio, presente nel pensiero anche durante l’amplesso con l’artista come mi hai raccontato, non puoi fargli tanto male in nome di una forma di lealtà o vaga moralità”.

Le mie parole, insomma, non so se sono state giuste, ma, che volete? Forse hanno aggiustato una drammatica traiettoria del destino.

* * *

La ferita. Aveva l’abitudine di dare una sbirciata al giornale, prima di iniziare la giornata e aprire il negozio. Tommaso Cipriano, un vecchio forte e vigoroso, da giovane era emigrato in Germania ed aveva trovato lavoro come operaio in uno stabilimento della Bosch. Tornò in Italia dopo 22 anni con una moglie tedesca e un gruzzoletto, che gli permise di aprire un piccolo negozio di articoli elettrici nel suo paese natale. Quella mattina il giornale in un’inchiesta riferiva l’elenco dei morti sul lavoro, un numero che, negli ultimi mesi, era drammaticamente salito. La lettura riaprì nell’animo di Tommaso una ferita sanguinosa, che, in tanti anni, non s’era mai sanata.

Il ricordo nitido del padre, giovane, sempre allegro. L’orgoglio per i successi scolastici del figlio, le albe rosate, quando, la domenica, uscivano insieme per andare a pescare e le loro intese, quando potevano portare a casa qualche sarago, qualche spigola per il pranzo domenicale. Gli scherzi gioiosi che facevano alla mamma, le irrefrenabili risate.

Era caduto dall’impalcatura per il cedimento di una tavola. Una tavola marcia, che non doveva arrivare sul cantiere e non doveva essere montata sui tubi innocenti. La mamma era troppo affranta dal dolore per poter affrontare la questione delle responsabilità, poi l’ignoranza delle questioni legali e dei diritti, l’antica remissività degli umili e lui era ancora un bambino.

Non poteva accettare di vivere su una sedia a rotelle il suo papà.

Dopo due mesi dall’incidente, un mattino ventoso di marzo, quando la moglie era al suo lavoro di domestica e il bambino a scuola, si portò da solo con la sedia a rotelle fino al pontile dello stabilimento e si lasciò cadere in mare.

Sul vecchio volto di Tommaso, uomo forte e vigoroso, fra le rughe, si fecero strada due lacrime di antico inalienabile dolore.

* * *

L’intervista. “È vero, l’amore non ha età. Ma il primo amore ve lo ricordate?”

Per la nostra inchiesta abbiamo fatta la domanda a molti “sciupafemmine” di varie età, posizione sociale e cultura.

Oggi, all’alba, sulla spiaggia antistante il castello, abbiamo incontrato quello che chiamano Giugiù il corsaro, ormai ottantatasettenne, uno che aveva fatto strage di cuori femminili. Si diceva che avesse pescato con successo in vari ambienti: del teatro, dell’alta borghesia, dei salotti romani, del mondo delle domestiche e delle principesse, della nobiltà papalina e, soprattutto, tra famose attrici del cinema, semplici comparse, vivaci soubrette, cocotte parigine e sciantose napoletane.  

È stato gentile. In verità, dapprincipio sembrava schivo e con la mano disegnava inequivocabilmente gesti di fastidio a dover ricordare un tempo troppo lontano, ma, poi, improvvisamente, si è aperto in un eloquio vertiginoso che ci ha molto sorpresi. Ascoltate!

“Mi ricordo il sentimento, non l’oggetto d’amore, forse la persona reale non c’era.

Mi ricordo che guardavo il cielo, la luna, di nascosto. Avevo paura che qualcuno scoprisse questa cosa enigmatica, agrodolce che avevo dentro, senza forma, senza nome, che non avrei saputo descrivere. Era l’eros, l’amore, il primo amore, l’attitudine, l’infinito potenziale, innocente e terribile, il killer pronto a colpire, bisognoso di un bersaglio e, infatti, presto, arrivò la realtà fatta di bellezza fisionomica, riconoscibile, col suo peso di danzatrice, coi capricci gioiosi, col soma divino di ninfa, con le reticenze orgogliose subito vulnerabili, coi profumi drogati del gelsomino, con i suoi piaceri frenetici, coi suoi occhi di mare e di luce, con lo strazio delle chitarre, coi suoi inconfessabili peccati, coi suoni lontani delle notti insonni e con le sue lacrime.

Fu l’apprendistato tempestoso e insieme malinconico e inquieto della giovinezza, poi, in poco tempo, la furia del vento si placò e il fuoco lentamente si spense, restò solo il mestiere, un mestiere raffinato e furbo di amatore e, naturalmente, il mito.

L’anima? Oddio, L’anima s’era rinsecchita a tal punto, che facevo fatica a riconoscerla. Una piccola anima con una stupida etichetta di viveur, una targhetta inutile, che mai era riuscita a riempire gli abissi orridi della solitudine.”

Giugiù sorrise. Poi serio guardò il mare, come per sottrarsi al contingente e tornare all’assoluto della sua dimensione.

Avevamo ascoltato increduli, a bocca aperta. Era arrivato un eloquio potente, un lessico profondamente umano, una musica dolce e amara, che non si concedeva al compiacimento nostalgico ed esaltante delle tante conquiste, ma metteva a fuoco con coraggio quello che era rimasto:”Una targhetta inutile”. Forse, anche per questo, per questa sua nobilissima umiltà, per questa totale assenza di retorica enfatica da macho, era stato tanto amato e desiderato e ancora adesso, da vecchio, a sua insaputa, lasciava nel cuore degli interlocutori un segno di antica, indelebile bellezza.

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