Luca Fortis
Un'altra Italia

L’arte di aiutare

Dalla Salvation Army al volontariato nei quartieri più disagiati di Napoli: ritratto di Caroline Peyron, artista da anni impegnata per portare il senso del bello e della creatività dove spesso c'è solo l'inganno della malavita

Il mondo del sociale ha mille sfaccettature, in alcuni casi la filosofia che lo ispira può cambiare a seconda della religione o cultura di appartenenza. Ne parliamo con Caroline Peyron, artista francese che vive e lavora a Napoli e che da trent’anni lavora nel sociale. Peyron ha esposto le sue opere a Napoli al Maschio Angioino, al Museo Archeologico, alla Certosa di San Martino, presso la Biblioteca Nazionale, nella tomba di Virgilio e all’Orto Botanico. A Roma all’Istituto Centrale per la Grafica e a Parigi nel foyer del Jeune Théâtre National. Peyron è discendente di una famiglia protestante che ebbe un ruolo molto importante nella Salvation Army e da trent’anni si occupa di progetti sociali a Napoli. Lavorando con associazioni di ispirazione laica e venendo da una famiglia protestante che lavorava nel sociale, ha potuto constatare nel tempo le similitudini e le differenze tra questi due mondi e la loro visione del sociale.

Vieni da una famiglia protestante

La mia famiglia è protestante dal 1500, sono ugonotti. Dal lato di mio padre una parte veniva dalle Cévennes e Arles, erano una famiglia di viticoltori.  L’altra parte era di origine svizzera calvinista. Mio bisnonno Albin Peyron era una persona molto importante nella Salvation Army. Ho avuto moltissimi pastori nella mia famiglia. Il lato di mia madre era protestante della Provenza e dell’Isère. Ho avuto un’educazione religiosa, feci la prima comunione nel maggio del Sessantotto. Lasciai il tempio subito dopo. Sono la prima persona della mia famiglia che ha fatto dei figli con un “papista”. Mia madre, venendomi a trovare a Napoli città che adorava, mi prendeva in giro benevolmente, dicendomi che molte delle tradizioni cattoliche napoletane erano proprio pagane.

Mi racconti qualcosa della Salvation Army?

I miei bisnonni Albin e Blanche  Peyron avevano un ruolo importante nella Salvation Army, crearono a Parigi la Maison du Peuple, La cité du Refuge progettata da le Corbusier e le Palais de la Femme, creati per accogliere i senza dimora e le donne in difficoltà. Venivano accolti il tempo necessario perché potessero rimettersi in sesto. I miei bisnonni erano sconvolti dalla miseria che c’era nelle città di inizio secolo. Ultimamente qualcuno ha scritto un libro sul lavoro della mia bisnonna, che si chiama “Les Victorieuses”, in cui parla del Palais de la Femme che ancora è molto attivo. Facevano poi la soupe populaire, andavano di notte nei quartieri più poveri con un carrello con della zuppa da distribuire ai poveri. Si definivano i soldati di Cristo. Avevo degli zii che erano stati anche in Africa, per esempio in Madagascar.

Tua bisnonna era famosa per cercare le persone da aiutare nelle taverne.

Mia bisnonna Blanche Peyron scrisse vari libri, in uno di essi racconta che andava nei quartieri di Pigalle, delle Abesses , vestita da italiana. Suonava il mandolino nei locali in cui cerano prostitute e alcolisti. Cantava canzoni italiane, perché se fosse arrivata con un uniforme della Salvation Army, cantando canzoni protestanti, in un bar popolare non l’avrebbero mai fatta entrare. La cosa divertente è che i bisnonni che combattevano contro l’alcolismo venivano da una famiglia di viticoltori. La famiglia di Albin Peyron aveva varie importanti cantine vitivinicole. Albin che combatteva l’alcolismo decise di fare del vino senza alcool e di fatto fu il primo a commercializzare del succo di uva. Il risultato fu, che in un paese che ha fatto del vino la sua religione come la Francia, l’azienda rapidamente non fu più redditizia. Una volta ottenne dal governo francese la possibilità di ispezionare le colonie penali francesi in Guyana. Ne rimase sconvolto e dopo tre anni di lotta riuscì a farle chiudere. Lui e la bisnonna viaggiarono anche in tutta Italia per creare anche lì le case della Salvation Army. Le aprirono a Roma, Milano e in altre città. Andarono pure a Napoli, ma lì compresero che non c’era alcuna possibilità.

Sei cresciuta in una casa progettata da le Corbusier.

Passai le mie vacanze in una casa disegnata da le Corbusier perché mio bisnonno lo aveva chiamato per progettare la Cité du Refuge e divennero amici. Quando mio nonno si sposò, il bisnonno chiese a le Corbusier come regalo di nozze di progettargli una casa su un terreno sull’oceano atlantico. Era una casa in cui si cantava molto. Il canto nella Salvation Army è molto importante, perché per raccogliere soldi chi fa parte della Salvation ​Army canta per strada, un po’ come fanno i militari, pur essendo un mondo protestante di sinistra votato al sociale. I mei genitori, pur avendo una forte identità protestante erano laici. Io uscii dalla chiesa a sedici anni nel bel mezzo del 1968. Non fu facile, perché il mio pastore era molto colto e aperto alla filosofia. Era una persona molto intelligente. Quando gli dissi che uscivo dal Tempio, lui mi rispose: “tu esci dal Tempio, ma il Tempio non uscirà da te”. Io facevo parte del famoso Tempio de l’Oratoire, a via Rivolì davanti al Louvre.

Che ti è rimasto del 1968?

Tantissimo, io avevo sedici anni. All’epoca i licei erano separati per maschi e femmine e la disciplina era molto dura. Io soffrivo molto di questo. Il 68 fu un’esplosione totale, con autogestioni, manifestazioni, incontri. Quando tornammo al Liceo era diventato finalmente misto. Ma tornare a scuola dopo tutta questa libertà non fu facile, tanto che l’ultimo anno di scuola lo feci da privatista.

Poi sei partita per un lungo viaggio fino in India e Nepal.

Appena finita la maturità sono partita. Sono andata in autostop passando dalla Iugoslavia fino a Istanbul, poi abbiamo preso una nave sul Mar Nero fino a Erzurum, da lì siamo andati in Iran, da dove abbiamo viaggiato in autostop sui camion fino a Teheran. Poi abbiamo preso il treno fino al confine con l’Afghanistan da dove abbiamo proseguito a cavallo o sui tetti dei pullman fino a Kabul e Mazar el Sharif. Poi dal Pakistan siamo andati in India e poi Nepal.

Come arrivi in Italia?

Negli anni Settanta ho preso due lauree in Linguistica e Letteratura a Parigi all’Università di Vincennes, creata dopo il ‘68. Poi ho lavorato all’Alliance Française. Arrivai in Italia nel 1983, già trentenne. Giunsi a Roma a seguito del mio ragazzo di allora, che poi divenne il padre dei miei figli. Feci richiesta per diventare lettrice in varie università. Napoli fu la prima a rispondere e così iniziai a lavorare all’Orientale. Dopo qualche anno in cui feci la pendolare tra Roma e Napoli, ci trasferimmo nella Penisola Sorrentina, a Montechiaro. Comprammo una casa lì perché siamo amici di Marco Rossi Doria, maestro di Strada e fondatore di Chance, uno di più importanti e innovativi progetti contro la dispersione scolastica. Suo padre Manlio Rossi Doria era un grande meridionalista, economista ed esperto di agraria. Antifascista, imprigionato negli anni del regime, era diventato senatore socialista e fu uno dei protagonisti della riforma agraria in Italia. Fu anche grazie a loro che conobbi la filosofia di chi lavorava nel sociale nel Meridione d’Italia.

Poi vai a vivere a Napoli.

A un certo punto mi sono trasferita a Napoli e cominciai a lavorare nel sociale al Dam, centro sociale Diego Armando Maradona. Era uno spazio occupato nel quartiere di Montesanto dove incominciai a fare laboratori di disegno per i ragazzi del quartiere. Collaboravo con Luca Rossomando, che oggi ha fondato il quotidiano Monitor. In quel momento iniziò la mia avventura nel sociale a Napoli.

Che esperienza fu per una persona che viene da una famiglia protestante che faceva parte della Salvation Army?

Molto bella, cominciai a entrare nel tessuto della città. Poi dopo che nel 1999 Marco Rossi Doria e Cesare Moreno, crearono il progetto Chance, incomincio a lavorare con lui facendo il laboratorio di pittura nel modulo di Montesanto. È stato un progetto straordinario, lavoravamo tutti insieme, mettendo in rete gli assistenti sociali, scuole e famiglie. Lavoravamo sulla dispersione scolastica con i ragazzi delle medie. Ogni anno selezionavamo una quindicina di ragazzi per modulo, li portavamo alla terza media e poi tentavamo o di fargli proseguire gli studi o di andare a lavorare da un artigiano, per evitare che finissero ammaliati dalle sirene della camorra. Inoltre, Chance organizzò molte conferenze internazionali a Napoli, non solamente per raccontare il progetto, ma anche per uno scambio di “best practice”.

Come fu per i ragazzi avere a che fare con una professoressa francese e per di più protestante?

Per i ragazzi era inizialmente difficile relazionarsi con una signora francese emancipata e che non parlava il dialetto. Certo lo capivo, ma era un’altra cosa. Ero di un’altra tradizione, un altro mondo. All’inizio alcuni ​erano aggressivi o mi prendevano in giro. Ma non rispondevo mai, anzi utilizzavo la loro aggressività per spiazzarli. Il primo giorno di lezione gli chiesi come andava e loro mi risposero “0 Cess…” che vuol dire uno schifo e io come se niente fossi gli risposi: “Ah interessante, lo sapete che c’è un artista che rese il cesso un’opera d’arte”. Incominciai quindi a parlargli di Duchamp. Loro non ci credevano e alla lezione successiva gli portai la fotografia dell’Orinoir di Duchamp. Poi siccome non facevano altro che dire parolacce a un certo punto gli dissi che d’ora in poi avremmo disegnato qualunque cosa dicessero. Così alla prima parolaccia che dissero l’ho disegnata e loro divennero di colpo più cattolici del papa. Si imbarazzarono a tal punto che ci pensarono di più di essere volgari. Per tre anni li ho portati all’Accademia delle Belle Arti per imparare a fare incisioni. Non lo sapevo fare nemmeno io e così ho ribaltato il mio ruolo, eravamo di colpo tutti alunni. Loro che vivevano al Cavone e non uscivano spesso da lì, non sapevano che c’era l’Accademia delle Belle Arti a pochi metri.

Hai lavorato anche in altri progetti.

Ho lavorato a Chance per dieci anni. Poi ho insegnato in tanti altri progetti, anche con ragazzi autistici. Sempre insegnando disegno. Nel tempo ho capito che ero portata a stare con le persone che hanno difficoltà, spesso sto meglio con loro che con i cosiddetti sani. Ho anche lavorato con analisti lacaniani. Negli ultimi anni faccio un laboratorio al centro delle Scalze. Si tratta di un laboratorio libero, frequentato da persone autistiche, i loro familiari e amici. Non c’è alla base l’idea di includerli, perché loro hanno solo un modo diverso di stare al mondo. Direi piuttosto che ci includiamo a vicenda. Da dieci anni tengo poi anche un laboratorio di disegno al Museo di Capodimonte organizzato dagli Amici di Capodimonte, in cui un sabato al mese, chiunque ha pagato il biglietto del museo o è socio dell’associazione che lo organizza, può partecipare. Scegliamo un’opera del museo come spunto di riflessione e disegniamo nella sala.

Dopo tutti questi anni pensi che vi sia una differenza tra il volontariato fatto dal mondo protestante e quello laico napoletano?

In fondo alla fine le persone che ho incontrato nel mondo del sociale napoletano e che sono diventate i miei amici, non sono poi così diverse da chi lavora nel sociale nel mondo protestante francese. Però devo dire che la mia parte un po’ ribelle, che a volte chiede di essere lasciata un po’ in pace, ha trovato casa a Napoli. Perché il mondo protestante francese è piuttosto inclusivo e laico, ma comunque richiede di presentarsi sempre come felici davanti agli altri, per ringraziare Dio. A volte “il vivi e lascia vivere” napoletano, diventa molto liberatorio.

Può essere che sia proprio il “vivi e lascia vivere” napoletano che ha fatto sì che molti elementi pagani siano sati accolti e siano ancora vivi nel cattolicesimo della città?  Gli stessi che il protestantesimo ha invece eliminato nella propria religiosità, tentando di tornare alle origini?

Per me che sono un artista, tra i due mondi c’è una differenza sostanziale ed è il ruolo dell’immagine. Il protestantesimo era infatti all’origine iconoclasta. Una differenza radicale con il mondo napoletano che è legatissimo al mondo dell’immagine. Questo rapporto nella città partenopea è ancora più radicale che nel resto del mondo cattolico. Le edicole votive e gli affreschi che si trovano in giro per Napoli sono state sicuramente affascinanti per me.

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