Loretto Rafanelli
“Folla delle vene. Il museo che di me affiora”

Iacuzzi: il colore rosa e schegge di vita

Si presenta domani a Roma la quinta stazione del racconto in versi e a colori che il poeta toscano tesse, tra invenzione e biografia, nelle sue raccolte. Un libro, questo, che «invoca un riscatto, una innocenza, un riconoscimento a un’esistenza lieve, una partecipazione alla vita fuori dalle violenze e dalle malattie del nostro tempo»

Una «salmodia di voci rese fraterne da un comune retaggio di sofferenza e dolore» diceva Giovanni Giudici riguardo la poesia di Paolo Fabrizio Iacuzzi, folgorante e preziosa indicazione su una scrittura che ci appare, appunto, segnata da una traccia indelebile di anfratti e distese di ferite antiche e rinnovate. Una poesia che, ancora una volta, con Folla delle vene (Corsiero editore), è situata nel contesto di una profonda urgenza, di una scarnificata verità, di insistenti oscurità, di rassegnazioni e possibili cauti slanci. Si tratta di un viaggio lento e abissale, alla ricerca di una improbabile fonte, con le parole scolpite nel buio. Iacuzzi ha costruito un libro volutamente spiazzante in quanto è senza un preciso itinerario, o un evidente fuoco centrale. Varie “stanze” compongono il libro e ci appaiono come momenti dispersi in un labirinto. Si va dal viaggio nel viaggio di poeti che da Marsiglia giungono a Pistoia e di uno a ritroso di poeti toscani in Francia, compresa l’incursione al famoso Ventoux del grande Pantani, dalla lettura della propria intima fragilità, compreso quell’universo che «nel rosa identifica il proprio fantasma femminile e non solo», per giungere infine al confronto con la cerchia delle sue conoscenze artistiche e umane (come lo storico dell’arte Aby Moritz Warburg, tedesco, ebreo di sangue e “d’anima fiorentino”, morto in manicomio).

Libro di conseguenza formato da vari frammenti, anzi da schegge che paiono amare gocce (come il chiedersi ossessivamente il senso delle cose, con quella ripetuta nenia: «Non c’è più tempo amici per le cose») e istanze di vita rivolte alla platea di indifferenti o vicini affetti e amori. Ai poeti francesi la domanda rivolta è sì sul senso e sulla logica del tradurre, ma ancor più la domanda è sul senso della vita, sulle difficoltà dell’esistere («Sono straniero nel mio paese»), sulle modalità e le complicazioni artistiche («È crepata la parete da scalare. Ormai il verso è solo»). Anche quando ci sono le frequentazioni legate all’arte, i grandi pittori seguiti e studiati e di cui ha poeticamente “visto” i loro quadri, da Leonardo a Michelangelo al Crivelli (sulla scia presumiamo del poeta, suo maestro, Piero Bigongiari, raffinato critico d’arte), le domande sono indirizzate sull’intrico di sensazioni e passioni che si stagliano in quelle vite, quasi di riflesso alla propria («Anche noi siamo dentro il quadro di Leonardo/ mentre giochiamo da bambini. Rapiti/ insieme dalla Vergine delle Rocce»).

Schegge che a ben vedere rientrano in quella dimensione di cui parlava Giudici. Allora, Folle delle vene, che ha avuto favori critici e premi, ci pare un libro che invoca un riscatto, una innocenza, un riconoscimento a un’esistenza lieve, una partecipazione alla vita fuori dalle violenze e dalle malattie del nostro tempo, e pure risolto infine nelle incomprensioni familiari. Iacuzzi è un poeta che nel buio vive («Il buio ti culla quando/ arriva la note»), ma cerca anche un passaggio verso la luce, verso la sanità, verso una musicalità interiore, che ci sembra però presente solo nella raffinata composizione poetica. Roberto Mussapi dice di Iacuzzi che gli «pare premuto dall’ansia delle cose, dal dolore, per la loro perdita, dal sogno di ritrovarle». Sicuramente è un poeta marchiato dal sangue della dispersione umana, dove la sua lingua anziché urlata diviene passaggio verso l’altro, seppure segnata dal peso di un passato e di un presente contrassegnato da quella pesanteur, quella gravità, di cui diceva Simone Weil (sebbene con riferimenti diversi), che è poi la mancanza di risposte d’amore, di accettazione, di una condivisa luce. E pare ci sia anche un tentativo, post-mortem, di un abbraccio a una figura che ricorre spesso nella raccolta, come in precedenti lavori, quella del padre, nell’invocazione di un segnale, di un respiro prima che compaia «il museo che di me affiora sulla lastra rosa», di una pacificazione, di «un amore scagliato dentro di me». Rimandi al padre come avviene per Roberto Carifi, suo conterraneo e in qualche misura punto di riferimento, il quale però lamenta più che l’esplicita distanza, la morte di questa figura. In Iacuzzi invece c’è una cerchia familiare, uno sfondo di cui il padre fa parte, con quei molteplici passaggi tra le fotografie ingiallite, viste in una successione di passi compiuti, di scarpe, di freddo, di neve, dove il ricordo si accompagna al pianto e alla necessità di un ponte, di un passaggio amicale, di un perdono per «quella maternità negata a filiazione alcuna che non sia ambita».

Proprio uno strenuo tentativo di riconquistare un pezzo di vita passata attraverso molteplici emozioni e riferimenti, di cui vorrei sottolinearne uno, il curioso, simbolico, “coro” delle scarpe: «che potevano darci l’illusione di una linea»; «l’amore fosse scarpa calzabile»; «quelle scarpe parlano»; «stringono con lacci invisibili il nostro passare»; «le bici con le scarpe». Ricordi che hanno frequentemente al centro una bicicletta, presenza felice e inquietante allo stesso tempo, che, come dice Pasquale Di Palmo nella preziosa nota critica, «rappresenta uno dei motivi ricorrenti, quasi un emblema dai tratti ora angosciosi ora rassicuranti». Bicicletta che dai quadri familiari dei genitori giunge fino a Pantani, in quella sofferta vita conclusa tragicamente, in quel Tour in cui si bruciarono infine le sue esigue forze, le sue molteplici ansie, che Iacuzzi traccia in questi intensi versi: «Ma poi tornando su/ in bicicletta sfila davanti a tutta una sola/ desolata finitezza./ Si concede l’ultima possibilità estrema/ indugiando davanti a quella fiamma viva./ …vede già/ la polvere negli occhi.// Tira le coperte e tira il lenzuolo sugli occhi».

 

Domani 1 febbraio, a Roma, alla Libreria Fahrenheit 451 (Piazza Campo dei Fiori 44), alle 18, Filippo La Porta e Silvia Zoppi Garampi presentano il libro di Paolo Fabrizio Iacuzzi “Folla delle vene. Il museo che di me affiora” (Corsiero Editore 2018). Partecipano Maria Grazia Calandrone, Claudio Damiani, Vincenzo Mascolo, Giovanna Cristina Vivinetto.

Facebooktwitterlinkedin