Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Visione di salvezza

In una Parigi fosca e traumatizzata dalla paura, dove si macchia di brutali reati e cerca conforto nei vizi e nei bassifondi, François Villon esce dal buio della disperazione attraverso il pensiero di sua madre che prega per lui…

Dal buio della disperazione e dalla luce della sua anima, di colpo pensa alla madre. Villon, il grande poeta perso nei meandri di una Parigi medievale distrutta dalle guerre; dalle sue taverne, dai suoi postriboli, la vede, la povera donna che lo allevò e lo fece studiare. La immagina, ora, nella piccola chiesa accanto alla città, a pregare devotamente, ingenuamente, Maria. È una delle liriche più grandi del grandissimo Villon. Si immedesima come in un prodigio shakespeariano nella povera donna analfabeta che gli ha dato la vita.
La grande città, labirinto, mistero incuboso, Dickens, Hugo, mulinanti romanzi. Ma anche in poesia, Villon, Baudelaire, la cui lezione è ripresa supremamente nel Novecento da Eliot, con Prufrock, ma anche in The wast land, memorabile. Se i grandi poeti dell’antichità rappresentano nell’epica conflitti primordiali, racconti, miti strutturanti in opere come l’Iliade, il Mahabharata, il De Rerum Natura di Lucrezio, le Georgiche di Virgilio, le Metamorfosi di Ovidio, i loro eredi nell’Occidente cristiano scrivono principalmente commedie, vale a dire drammi cosmici incarnati in eventi, in incontri e vicende umane, come riaffioranti dal passato nell’esperienza quotidiana e individuale. La Commedia di Dante e il teatro di Shakespeare sono in tal senso i fari di una civiltà che interroga e scruta il globo spiandone gli abitanti, i grandi eventi delle origini rivivono nelle storie di amore, di politica, che si svolgono nel mondo, tutto è incarnato nelle cronache e nella storia, come nei quadri di Caravaggio.
Nel caso di Villon poi la prospettiva terrena si esaspera, il suo mondo vive attaccato alla terra, semimmerso nei suoi loschi sotterranei dove si congiura, nelle cantine dove ci si ubriaca bestialmente, nei bassifondi dove la vita è brutale, e il vino in eccesso, e il sesso mercanteggiato e gli accessi di collera paiono tremiti tellurici, trasmessi a chi è troppo a contatto con la pancia buia della terra. D’altro canto, se alzi lo sguardo, in alto, quando non nevica (quando cioè il cielo non porta che gelo nelle ossa), in alto Villon vede svolazzare, cupi e sinistri, i corvi, a segnalare corpi che penzolano, anch’essi in alto, anneriti, rinsecchiti. In cielo vede i corpi degli impiccati che evidentemente costituiscono una caratteristica del paesaggio urbano di quella Parigi del XV secolo, città enorme, popolosa, immiserita dagli esiti di una lunghissima guerra che ha opposto la Corona di Francia a quella d’Inghilterra.
In questa città fosca e traumatizzata dalla paura (gli impiccati sono i condannati, anche di reati di cui Villon si macchia, furto, risse, una volta omicidio, seppur con l’attenuante delle provocazioni), quei corpi penzolanti indicano il cupo destino incombente sull’uomo. I derelitti, mossi dalle passioni elementari, e i potenti, la fame, la lussuria, la voglia di arraffare, gli uni e gli altri, i ricchi e i poveri, cercano per tutta la loro vita (peraltro sempre breve, a quei tempi) la pacificazione dell’amplesso e l’estasi calda dell’ubriachezza, uniche forme di effimera quiete terrena, subito cancellata dal tempo che rinasce a ogni istante sulle proprie ceneri.
Poi, d’improvviso, la visione della salvezza: lei, la povera vecchia madre, analfabeta, che sta pregando per lui Maria, in una chiesetta fuori Parigi. Villon sillaba il proprio nome nelle parole di sua madre, si inginocchia alla sua nascita e alla sua salvezza.

 

Villon

Ballata per pregare Nostra Signora

Dama del cielo, regina della terra,

imperatrice delle paludi d’inferno

accogli la tua umile credente,

comprendi anche me tra i tuoi eletti,

anche se io non valgo niente.

Dama e Signora, i beni che tu effondi

superano di gran lunga i miei peccati,

senza quei beni l’anima non accede

alle porte del Cielo. Non ti inganno:

vivere voglio, e morire in questa fede.

 

E dì a tuo Figlio che io sono sua,

da lui mi sia rimesso ogni peccato,

dille che come fece con l’Egizia

o con Teofilo, anche me perdoni,

Teofilo che per tua intercessione fu salvato

anche se aveva fatto una promessa al diavolo.

Preservami che mai lo faccia io,

Vergine che nel tuo grembo inviolato

porti il sacramento della messa:

vivere voglio e morire in questa fede.

 

Sono una donna poveretta e anziana,

che non sa niente e non ha letto libri.

Vado al convento dove son parrocchiana,

cielo dipinto, con le arpe e i liuti,

e un inferno dove bollono i dannati:

l’uno mi fa paura, l’altro gioia e festa.

Fammi avere la gioia, o Dea eccelsa,

a cui ogni peccatore deve ricorrere,

pieno di fede, non pigro né lento:

vivere voglio e morire in questa fede.

 

Vergine degna e dolce tu ci portasti

il regno di tuo Figlio, senza fine.

L’Onnipotente con le nostre fattezze,

lasciò i cieli per venirci in soccorso,

offrì alla morte la sua giovane vita,

non c’è dubbio su questo, sul Signore:

vivere voglio e morire in questa fede.

François Villon
(Traduzione di Roberto Mussapi, In The conversation of voices, Algra editore)

 

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