Paolo Petroni
La culla del primo futurismo

Nuove Giubbe Rosse

Dopo cinque anni di chiusura riapre lo storico caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, lì dove è nata tutta la letteratura del Novecento. Come raccontò anche Guglielmo Petroni...

Dopo oltre cinque anni di chiusura e un ultimo infelice periodo (nella società proprietaria compariva anche un magnate kazako coinvolto in un’inchiesta di autoriciclaggio), a giorni, restaurato senza snaturarlo assolutamente nei suoi aspetti originari con un bel pavimento con un gioco di mattonelle diverse, riapre a Firenze domani, mercoledì 12 giugno, in quella che era Piazza Vittorio Emanuele II e ora Piazza della Repubblica, lo storico caffè delle Giubbe Rosse, così nominato a suo tempo per il colore delle giacche dei camerieri, in realtà una Birreria, come diceva l’insegna, dei Fratelli Reininghaus, due birrai tedeschi che ne fecero, appena aperta nel 1897, il ritrovo di turisti e della comunità tedesca fiorentina.

Sui tavoli erano sempre quotidiani e riviste fresche di giornata, italiane e straniere, e furono probabilmente queste e la posizione centrale a cominciare ad attirare intellettuali e artisti che gli avrebbero dato fama. Tra i primi a ritrovarsi nell’ultima, cosiddetta terza saletta del caffè, quelli legati alle avanguardie Primo Novecento e tutto il gruppo che gravitava attorno alla rivista Lacerba, uscita tra il 1913 e il 1915. Erano un gruppo di fuoriusciti de La voce, molti, con Prezzolini, anche loro frequentatori del caffè. Tutto era nato con l’uscita del manifesto futurista di Marinetti il 20 febbraio 1909 a Parigi su Le figaro (che pure era uscito 10 giorni prima sulla Gazzetta dell’Emilia). Era esplosa allora la febbre futurista con Soffici, Palazzeschi, Boccioni, Papini, Marinetti di passaggio arrivato da Londra, e tutti gli altri. Il bello di quel locale e della vivace colta Firenze di riviste e editori, di scrittori e pittori, che ebbe il suo culmine negli anni dieci, venti e trenta, era che discussioni e divisioni vi erano, ma senza mai prevaricazioni, ché a quei tavolini si ritrovavano tutti e fare i nomi sarebbe un elenco davvero lunghissimo.

Nel 1926 fu poi il momento della creazione da parte di Alberto Carocci di Solaria, che aveva tra i fondatori Eugenio Montale, Leone Ginzburg, Aldo Garosci, Guglielmo Alberti, Giacomo Debenedetti, Umberto Morra di Lavriano e Sergio Solmi attorno cui si affiancarono altri provenienti da La Ronda (che aveva chiuso tre anni prima) come Riccardo Bacchelli e Antonio Baldini, nel giro anche Carlo Emilio Gadda coi più giovani Arturo Loria e Alessandro Bonsanti che introdusse il suo amico critico e scrittore Silvio Guarnieri. L’esaltazione futurista era praticamente alle spalle e il fascismo incombente con la sua retorica, una realtà con cui quasi tutti loro avrebbero presto fatto i conti. A Solaria nel 1937 seguì Letteratura, aperta ai dibattiti delle nuove generazioni di letterati. Nel 1938, per opera di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, sempre alle Giubbe Rosse vide la luce anche Campo di Marte, il cui scopo mirava a ricercare un rapporto tra arte e realtà politico-sociale, e con loro erano molti altri giovani coetanei, da Mario Luzi, a Oreste Macrì, da Elio Vittorini a Guglielmo Petroni

È di quest’ultimo, dal libro ”Il nome delle parole” (Sellerio) una bella testimonianza di cosa rappresentassero le Giubbe Rosse, dove arrivò ventenne dalla natia Lucca, in seguito all’uscita delle sue prime poesie. Ricorda in alcune pagine del racconto autobiografico Il nome delle parole (1984) quale clima vi si respirasse e viveva a inizio Anni Trenta:

Firenze era vicina ormai. Anch’io non la pensavo più come un universo remoto; senza che me l’aspettassi me la trovai veramente vicina. Firenze era l’approdo, Firenze era la meta. “Vieni a farti conoscere” mi scrisse Silvio Guarnieri. “Non posso ancora, ma appena avrò i soldi per il treno”. Il treno da Lucca costava quasi 4 lire. Passarono 2 settimane e mi arrivarono 100 lire. “Ora vieni e stai un po’ qui”.

Partii per Firenze, anzi per le Giubbe Rosse. Era in quel luogo in quel caffè che non avevo mai visto che pensavo si sarebbero acquietate speranze e ambizioni. “Che mai di più – mi dicevo – se potrò stare allo stesso tavolino con loro?” oltre, “che mai ci può essere da desiderare?”.

Di loro ormai saperlo tutto, con quasi tutti avevo scambiato qualche lettera.

Tuttavia entrai nel locale senza particolari emozioni; il cuore che dalla remota infanzia osava rinserrarsi affinché potessi essere meno vulnerabile, questa volta fu quieto. Non vi furono particolari susciti, non spuntarono barricate in difesa della mia fragilità. “Oh Petroni” fu il debole saluto dei nuovi amici che, dopo una stretta di mano, tornarono immobili e silenziosi. Rimasi lì con loro e i silenzi erano lunghi, inevitabilmente ammorbiditi dai gorgheggi baritonali di Montale.

Bonsanti mi rivolse qualche buon sorriso. Vittorini mi domandò se avevo già cercato l’albergo. Imparai presto che quei silenzi non mettevano a disagio, non contenevano nulla d’imbarazzante; parevano anzi dialoghi rassicuranti. In certi momenti invece la parola fluiva quasi eccitante punta e, discussioni spesso esplodevano inaspettatamente anche se, per lo più, consistevano imbattute brevi, e spiegazioni costruite col minimo delle parole necessarie, spesso pungenti: l’ironia di alcuni tagliava e cuciva. Un argomento che ricorreva quasi giornalmente riguardava le lettere che ognuno aveva ricevuto da poeti e scrittori lontani, da Roma, Milano, Trieste.

Nei giorni che seguirono il mio ingresso alle Giubbe, Sebastiano Timpanaro fu il primo a manifestare un po’ più ampiamente la curiosità per la mia presenza; gli altri pareva che avessero bisogno di studiarmi un poco. Timpanaro volle sapere se era vero che lavorava in una bottega di scarpe. “Quella di mio padre”. “Allora sei ricco”. “Veramente no”. “Hai poesie inedite?” “Le ultime sono quelle uscite sul Selvaggio”.

Non fui sconcertato nemmeno al primo incontro; era come se già conoscessi quel comportamento, quei silenzi; all’ora di salutarci però, Montale e qualche altro si preoccuparono s’io sapevo dove avrei potuto cenare. “A casa mia” rispose per me Vittorini, che già mi aveva avvertito.   Dopo cena, i figli a letto e Delfina in cucina, rimanemmo noi due soli a bisbigliare; più che di letteratura, conoscevamo il reciproco lavoro da tempo, parlammo delle nostre miserie quotidiane; Elio aveva una vita difficile, anche se Delfina, che era la sorella di Quasimodo, aiutava la barca lavorando in una tabaccheria. Malgrado le sue difficoltà fossero forse maggiori delle mie, io provavo invidia per lui: scriveva, s’interessava solo al suo lavoro letterario; questo mi pareva dovesse ripagarlo d’ogni difficoltà, mentre io, tutto il giorno a bottega, finivo per confessare all’amico che ho avrei sopportato difficoltà anche maggiori se avessi potuto, come lui, affidarmi interamente alla letteratura.

Presi anch’io l’abitudine a lunghi silenzi. Ma tuttavia gli argomenti non mancavano, e ogni commento mi sarebbe stato di difficile comprensione, se non fossi approdato tra quel minimo, esclusivo gruppo di persone quando già conoscevo molto di loro, di quell’angolo di esercizio pubblico che infine non era che un’isola i cui abitanti, o si conoscevano nell’assuefazione a vivere vicini l’un l’altro, o saltavano il mare agitato che li attorniava, dimostrandosi presenti e consapevoli di idee e avvenimenti lontani, specialmente cose di Francia, ma anche d’Inghilterra, e anche del resto del mondo.

Il primo approccio con Gadda non tardò molto; mi si mise vicino: “Bella Lucca”. Fu subito attento alle mie parole, alcune cominciò ad appuntarle su un taccuino; me le faceva ripetere ed erano quelle parole lucchesi di cui non facevo allora risparmio. Tutti comunque, ben presto conversavano volentieri con me; Montale, nei nostri primi approcci, mi parlò lungamente della psicanalisi, dell’ultima sigaretta di Zeno, e mi parve quasi meravigliato quando potei dimostrargli che quegli argomenti non mi erano del tutto estranei. Loria era un poco l’animatore, sapeva concentrare su di sé l’interesse degli altri, per il suo parlare composto d’un fiorentino particolare, non privo di qualche esibizionismo; c’era in lui qualcosa dell’intellettuale francese; lo capii diversi anni dopo, quando fui con lui a Parigi, quanto egli conoscesse e amasse la Francia. Piuttosto estroso, era quello che si avventurava più spesso in polemiche letterarie: se si parlava di colleghi italiani c’era sempre una punta di sarcasmo, ma infine era difficile il suo giudizio risultasse distruttivo anche se, spesso, un nome, un argomento, senza subire violenze verbali, ne poteva uscire assai malconcio.

Prima che mi congedassi alla fine della mia prima visita ai fiorentini, Montale e Gadda mi invitarono a cena all’Antico Fattore; mi fecero parlare molto, vollero sapere tutto delle mie giornate lucchesi, della mia pittura, del mio negozio di scarpe. Non sapevano che parlandomi con naturalezza di ciò che per me era stato per molto tempo situazione di grande disagio, stavano felicemente distruggendo gli ultimi residui dei miei pregiudizi. Prima che ci lasciassimo, proprio in quel primo nostro lungo colloquio, Gadda mi fece una domanda: “Come ti è venuto in mente di scrivere?”.

“Non so, dipingevo soltanto, ma oraellanno è bruciato lo studio dove lavoravo con un amico, proprio quando l’Italia Letteraria ha pubblicato le mie prime quattro poesie. “Orellanno, splendido. Me lo segno”. Questa domanda di cui mi ero subito dimenticato, doveva tornarmi a mente pochi giorni dopo, quando ricevetti una lettera di Montale che mi informava che Carlo Emilio era sulle spine perché temeva di avermi offeso. … Cominciai così ad intravedere il lato imprevedibile segreto del mondo che mi ha accolto; era un mistero buffo che in realtà conteneva angoscia miste a piaggerie, divertimenti mischiati e paure. Attraverso tutto questo si potevano comunque capire le segrete incertezze, le blande difese dietro le quali gli amici fiorentini dovevano proteggersi. … Firenze alla fine mi aveva inquadrato nel vivo, nella realtà di un mondo contemporaneo, che io, da lontano, avevo frequentato soltanto con l’immaginazione, attraverso testi e notizie, legandomi di affetti e interesse alle persone che ora erano amiche.

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