Danilo Maestosi
La Capitale in vista del Giubileo

Il puzzle di Roma

A Roma riapre il parco del Celio e torna visibile, sulla pianta settecentesca di Giovan Battista Nolli, la celebre Forma Urbis, un labirinto di marmo dell'epoca imperiale. Il segno di una possibile rinascita culturale?

Una nuova balconata sul cuore antico di Roma riaccende il sogno di un progetto rimasto troppo a lungo in letargo e la speranza di riconsegnare al futuro il volto dell’area archeologica centrale, maltrattato da decenni di interventi a singhiozzo, scavi senza sistemazione, guerriglie ideologiche e corporative, slittamenti e silenzi. È il recupero a parco monumentale e piccolo polo museale di un grosso spicchio delle pendici del Celio che fronteggia i ruderi del Palatino. Un pezzo pregiato di centro storico sequestrato, nonostante la sua collocazione e i suoi tesori, all’uso e al piacere della città, come corsia tranviaria e deposito di stivaggio dei marmi e dei reperti architettonici di oltre un secolo e mezzo di sventramenti e interventi edilizi nei vecchi rioni del centro.

Quel pezzo di città dimenticato fuori portata torna ad essere, come era stato già pensato in epoca napoleonica e come fu rimodellato negli anni del governatorato, uno spazio d’attrazione e di vita percorribile e aperto gratuitamente a tutti. Che sarà ampliato a breve, entro la scadenza del Giubileo, dallo spostamento a valle dei binari. Ed è già impreziosito dalla spettacolare istallazione da museo all’aperto del cimitero di pietre polverose e illeggibili che ospitava. Trabeazioni, colonne, sepolcri, lapidi. Pagine di marmo messe in salvo che ora, studiate, restaurate, raggruppate per contesti di provenienza, catalogate da didascalie elettroniche che puoi attivare con il telefonino, da un gruppo di esperti della soprintendenza capitolina, diretta da Claudio Parisi Presicce, tornano a raccontare le loro storie perdute. A liberare in questa narrazione il tempo, il gusto, il lusso, la vanità, le ambizioni dei personaggi, piccoli e grandi, che le hanno commissionate, a restituire gli echi degli usi e dei messaggi pubblici che dovevano rappresentare, delle architetture e delle abitazioni cui offrivano sostegno e decoro. A testimoniare la perizia degli artisti e degli artigiani che hanno dato loro forma.

A distanza, il colpo d’occhio restituisce il fascino e il mistero di quegli indistinti labirinti di rovine che hanno acceso la fantasia visionaria di Piranesi e dei illustri viaggiatori del Grand Tour. Manca solo a completare l’effetto da cartolina romantica la vegetazione che un tempo avvolgeva questa fiancata di collina e l’aveva fatta ribattezzare a fine Ottocento come Orto botanico. Resta solo la chioma di qualche pino e una radura di prato un po’ troppo squadrata, per agevolare la passeggiata e allestire i vari assemblaggi tematici.

Poco male, è un vuoto da colmare che forse non intimidisce e predispone all’ascolto. Perché ognuno di questi siparietti, non appena saranno attivate – la promessa è a pochi giorni – le schermate ad app delle didascalie e delle traduzioni area per area dei curatori, racchiude un coro di voci attraverso cui il popolo della Roma antica, ricchi e poveri, si racconta, si rivela ci parla.

Echi di una sorta di social del passato risuonano persino dalle epigrafi incise sulle tombe dei nostri progenitori, attenti forse più di noi cittadini tecnologici spesso così ossessionati dalla nostra insignificanza, a lasciare comunque un segno, una serie di aggettivi, una testimonianza anche manipolata e addolcita del loro passaggio e della loro partecipazione alla Storia di questa capitale d’Impero, sigillata dal nome e dalla cronologia dei Cesari che si sono succeduti nelle regge del Palatino.

Una mini odissea di spostamenti e avventure l’iscrizione di Tito Mansueto che illustra la sua carriera di militare ripercorrendo spedizioni e viaggi in vari paesi d’Oriente. Un commovente campionario di dedizione e di orgoglio del proprio lavoro la lastra in cui Pamphilia, un’umile parrucchiera di duemila anni fa, si è consegnata ai posteri. Come in tanti profili di Facebook.

Sì, sto forzando un po’ la piega del gioco. Ma la chiave del gioco è importante per snidare gli archeologi dal fortino esclusivo dei propri saperi. Rassicurare e sfidare al coinvolgimento il pubblico va e vieni senza patente. Soprattutto quello dei quartieri più lontani che hanno perso il piacere di sentirsi romani.

È una lezione che ho appreso da Renato Nicolini, dai suoi sofisticati esperimenti sulla città che mescolavano senza timori stimoli e registri d’alta e bassa cultura. Me lo ricorda pure questo luogo dove atterrò all’inizio degli anni Ottanta una edizione della rassegna cinematografica di Massenzio, gli schermi delle maratone per nottambuli e cinefili piantati proprio tra queste rovine. La parola d’ordine, avallata dal sindaco Petroselli era: riappropriamoci anche del Celio, dopo i Fori e il Colosseo. Per cambiare a poco a poco Roma, partendo da questo centro antico, bisogna sentirlo, viverlo e farlo vivere come spazio di tutti, non solo come una miniera a gettone per turisti.

Sono cambiate molte cose, la gente e la politica hanno poca memoria e vista corta, la precarietà irrisolta dei mali quotidiani ha dilatato distanze e separazioni di classe tra centro e periferie. Ma quella bussola di quarant’anni fa mi sembra indichi ancora una direzione da riconsiderare e riprendere.

Ben venga il gioco dunque. Come ribaltamento di approccio e di punti di vista. Lo conferma un’altra grande attrazione abbinata a questa operazione. L’allestimento a museo dell’ex palestra littoria in disarmo per ospitare e rimettere in mostra uno delle reliquie più singolari e preziose che la Roma dei Cesari ci abbia lasciato. La Forma Urbis di Settimio Severo, un imperatore del secondo secolo a.C. venuto dalla Libia, molto prima che per l’Africa dei migranti Giorgia Meloni riscrivesse a suo modo la strategia del piano Mattei.

Una gigantesca mappa della Roma del tempo, una metropoli multietnica di circa un milione di abitanti, incisa su una serie di 150 lastre, appese su una parete di fondo del Foro della Pace, da cui venne dissepolta nel 1562 dal cardinale Farnese. Migliaia di schegge malridotte trasportate come trofeo da un corteo di carrette fino al palazzo di Campo de’ Fiori, da cui in gran parte ripartirono e si dispersero sminuzzate come materiali di riuso per dimore, chiese, opere pubbliche della città papalina, mentre circa un terzo dell’originale, i pezzi meglio conservati e meglio interpretabili per le conoscenze dell’epoca trovarono alla fine riparo e salvezza nei musei capitolini. Pochi, mal concepiti e senza grande successo i tentativi di esporli al pubblico. L’ultimo proprio qui al Celio in una sala dell’Antiquarium, un lungo padiglione costruito a fine scarpata dal governatore Antonio Munoz durante il regime mussoliniano per le reliquie recuperate da scavi e sventramenti che finì in abbandono e dissesto dopo appena un decennio, lesionato dai lavori della metropolitana, ma che un prossimo lotto dei lavori su impulso e finanziamento previsti nel nuovo piano di rilancio del parco del Celio dovrebbe restaurare e riportare finalmente in funzione. Speriamo con lo stesso impegno, fantasia e coraggio divulgativo che gli esperti della soprintendenza hanno dimostrato nel riportare e rimontare in passerella le tessere da puzzle monco e scompaginato della Forma Urbis.

Due colpi d’ala ad alto impatto spettacolare. Stendendole in terra sotto un pavimento di vetro, invece di attaccarli in orizzontale. E adagiandoli su un capolavoro della cartografia dell’Urbe più recente ma non meno celebrato: la pianta di Roma realizzata e pubblicata nel 1740 da Giovan Battista Nolli. Opera di un rigore, una precisione, una ricchezza di dati che ancora fa testo: in evidenza i nomi delle vie e delle piazze, quelli di monumenti, chiese e palazzi; i perimetri degli isolati, del Tevere e del lungofiume, e delle rovine antiche più dettagliati e leggibili di quelli della pianta severiana, offerti per attraversare con lo sguardo una città molto più simile nel suo assetto alla capitale imperiale descritta con sintesi più approssimative ed arcane dagli scalpellini di Settimio Severo.

Un tappeto a macchie di leopardo, gli abitati più densi dei rioni attraversati dai solchi e dalle chiazze di giardini, ville, vigne e orti urbani che diradano ad aperta campagna a ridosso e aldilà delle Mura Aureliane, che oggi sono il giro di compasso del centro ma tre secoli fa erano piena periferia. E sopra un altro tappeto che sprigiona il biancore e lo spessore del marmo.

Camminarci sopra per osservarli è come consultare dall’alto, con il corpo e la mente, un doppio stradario d’epoca, uno a due dimensioni su carta, l’altro di pietra sovrapposto in rilievo. Come passeggiare sulla vertigine di uno spaesamento di tempi sfalsati che può diventare scoperta.

Perché è interrogarsi e riconoscere dove ti sei fermato, trovando poi aiuto e conferma nelle scritte del Nolli, che dà senso al gioco. Ecco qui, disegnata da poche tessere superstiti, la testa e la spina del Circo Massimo. Ecco pochi passi più in là i geroglifici a semicerchio che abbozzano le scalinate delle tribune sagomate sull’ovale del Circo Massimo. E questo altro semicerchio? È la platea a mezzaluna del teatro di Pompeo, il primo in muratura di Roma, oggi scomparso e affossato a frammenti.

Un piccolo passo più in là ecco il cerchio del Tempio rotondo che anche oggi domina come un distintivo le rovine raccolte nell’Area sacra di Torre Argentina. Mai provato prima questo ballare al ritmo della propria curiosità. Uno spasso portarci i bambini e vedere l’effetto che fa. Unico limite il costo del biglietto, ma per i romani c’è il passaporto di una tessera annuale, l’abbonamento Mic. di appena cinque euro.

E per chi è stato meno previdente, basta avanza il regalo a sorpresa della vista. Incantevole già dal giardino. Stupefacente dalla terrazza e dalle finestre alte della Casina del Salvi, finalmente restaurata e tra breve riaperta e restituita alla sua funzione originaria di Coffee house. Da lassù ad accoglierti per ora è un panorama mozzafiato c inedito. Sulla destra la mole massiccia e squadrata del basamento del tempio di Claudio, che grazie ad un accordo nel nome del Giubileo con l’ordine religioso cui appartiene questo lembo di scarpata, sarà possibile raggiungere in ascensore. A sinistra, raccolto in un’inquadratura inusuale sfalsata e a grandangolo lo spettacolo dell’area archeologica centrale in tutta la sua sfaccettata complessità da raccordare e rimodellare sui bisogni e sui sogni della città di domani.

Non è solo la riscoperta di un luogo e di una postazione dimenticati, ma un significativo cambio di scena e di punti di osservazione e collaudo che può ribaltare il verdetto della partita politica e culturale su questa fascia di centro monumentale che si trascina irrisolta e mal gestita da quarant’anni, dal fischio di via dal sindaco Petroselli con il progetto Fori. Sempre più spezzettate, interrotte, confuse le azioni in campo, sempre meno convinti gli arbitri che gli sono subentrati, sempre meno coinvolti spettatori e tifosi.

Il successo in diretta di gradimento e di pubblico di questo esperimento di recupero del Celio, aumentato nei giorni successivi alla festa inaugurale, apre finalmente spiragli di inversione di rotta. E premia il paziente e oscuro lavoro dietro le quinte del regista di questa ripresa di gara: Walter Tocci, ex vicesindaco ed ex senatore Pd, che sui destini di Roma continua a studiare e far scuola. La giunta Gualtieri lo ha chiamato a riattivare la questione. E trovare sbocchi praticabili per uscire dal pantano in cui si era arenata.

Il piano che ha elaborato si chiama CarMe, sigla da poema che battezza una grande operazione di riqualificazione e modernizzazione a più stadi del cuore antico di Roma, che Tocci ha calibrato e portato in rampa di lancio. E iniziato a illustrare in una serie di incontri tra esperti. Un corposo e dettagliato promemoria di intenzioni, indirizzi, interventi, delibere prese o da adottare e portare avanti su obiettivi precisi, finanziamenti già in cassa o da mettere in campo, studi e proposte di riassetto dimenticati, intese rimaste sulla carta e da aggiornare e perfezionare per districarsi nella giungla di competenze dei centri decisionali e amministrativi di Stato e Comune in cui è frazionato il governo e il malgoverno dell’area archeologica centrale. Una perfezionabile antologia di proposte, previsioni, passaggi e tempi d’attuazione, alla quale, dopo i primi test pubblici, è mancata purtroppo un adeguata accoglienza e risonanza. Timida la spinta del Comune, indecifrabile e poco promettente il riserbo del ministro della cultura Sangiuliano.

La nuova spavalda destra al governo arroccata sulla difesa delle sue radici identitarie continua a far muro su una pregiudiziale: il mantenimento dello stradone littorio che taglia la spianata dei Fori, simbolo di un assetto che gli scavi dei vari recinti e le brutte e precarie sistemazioni hanno dissolto. La fazione dei conservatori che la sostiene non si rassegna a rinunciare alla sua funzione di arteria di penetrazione del traffico privato, nonostante l’imminente entrata in funzione della metropolitana. Polemiche e fuochi di sbarramento sui giornali e sui social che hanno preso a bersaglio come un devastante capriccio anche il concorso internazionale di architettura appena bandito per rammagliare e ricucire con interventi sul verde e nuove piazze di sosta l’intera spianata con le aree di bordo e i rioni lì attorno.

Partire dal Celio, come primo concreto tassello del CarMe, può rivelarsi un’utile mossa di disinnesco di queste pregiudiziali. Spronare la destra più retriva e nostalgica: la vocazione e gli edifici dell’area che si ripristinano sfruttano e valorizzano impronte lasciate da urbanisti e architetti del Duce. Riaccendere e richiamare in capitolo la voce e l’attenzione protagonista dei cittadini. Senza il loro tifo la partita è persa. La Roma del futuro e di chi ora ci vive rinuncerebbe senza combattere alla Coppa dei campioni.

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