Pasquale Di Palmo
I deliri del bibliofilo

Facezie di un “pazzo”

A proposito delle sue “Tredici facezie”, scriveva Tancredi (Parmeggiani): «…ritengo che questo libro sia utile per testimoniare lo stato d’animo di un italiano di fronte ai pericoli di qualunque rinascente dittatura, nemica dello sviluppo dell’uomo»

Le “facezie” erano disegni tra il grottesco e il surreale che Tancredi Parmeggiani, che si firmava solo con il patronimico, andava componendo sin dalla fine degli anni Cinquanta. L’autore stesso spiega che si tratta di «facezie, scherzi accorati fatti con un po’ di leggerezza e un tantino di amarezza», tesi al recupero di una figuratività allucinata e stravolta, dopo le esperienze astratte e spazialiste degli anni precedenti. Questi disegni, che avranno una parte preponderante nell’opera grafica di Tancredi tra il 1959 e il 1962, rappresentano ossessivamente il mondo dei matti, tratteggiati attraverso figure nude e deformi che caracollano sotto il peso di testoni itifallici. Si tratta di larve, ectoplasmi, spesso avvolti in un bozzolo intricato di segni che vivono questa loro condizione claustrofobica senza il conforto di alcuna consapevolezza. In una lettera del 1961, anno di pubblicazione della raccolta, all’amico Olivier Herdies, relativa appunto alla genesi di questi disegni, Tancredi osservava: «Caro Olivier, io non ho inventato proprio niente. Li ho trovati per la strada: tanti piccoli matti con dei cazzi senza palle e delle teste grosse, gonfie di decorazioni, armature e retoriche comuni. Io non ho fatto che buttarli sulla carta perché si potessero vedere e per vedere io stesso un po’ più di me stesso». 

Il libro, intitolato Tredici facezie, edito dalla Galleria Schwarz di Milano nel 1961, misura cm 30,4 x 24 ed è un piccolo gioiello di arte grafica, rintracciabile a un prezzo che si aggira sul mercato del modernariato intorno ai 70 euro. In sovracoperta campeggia una facezia, poi riproposta nella prima tavola all’interno del volume: L’anello sul naso. Le pagine, non numerate, sono 40; all’inizio figura un’intervista di Jean-Jacques Lebel allo stesso Tancredi, proposta sia in francese che nella traduzione italiana di un fantomatico Egizio Configliacco. 

“Tredici facezie”, pubblicato dalla Galleria Schwarz di Milano nel 1961

Nella fondamentale opera in due volumi intitolata Tancredi. I dipinti e gli scritti, curata da Marisa Dalai Emiliani per Allemandi nel 1996, leggiamo nella sezione dedicata alle vicende biografiche dell’artista, stilata da Silvia Mascheroni: «Con la consueta generosità, tratto essenziale del suo temperamento, Tancredi dona a parenti e amici il volume, arricchisce ciascuna copia con una dedica particolare e, a volte, anche con un nuovo disegno». E nella relativa nota: «Sulla copia donata a Guido Cadorin Tancredi scrive: “Amo una squisita dama rosa con una rosa rossa nella mano e un abito bianco d’argento: come la luna”. Il volume donato a Sergio Dangelo è così dedicato: “Al dangelo (crepa) Tancredi, 1-2-61. Fifone!! È uno scherzo. Vivrai 50.000 anni (luce)”. Il giornalista Sirio Musso ricorda: “Mi regalò il libro delle facezie e lo firmò ad ogni pagina; la dedica era “al mio grande amore Jolanda [moglie di Musso], da un pazzo che disegna pazzi”. Sotto la firma anche la data: “8 febbraio 1961” […]. Sulla copia donata in data 27 luglio 1962 alla zia, Tancredi scrive un’importante dichiarazione: “Amo questi disegni. Questi disegni e questo libro sono nati poco tempo dopo i fatti di Genova contro il governo clerico-fascista di quel momento. Felice dello svolgersi migliore degli avvenimenti ritengo che questo libro sia utile per testimoniare lo stato d’animo di un italiano di fronte ai pericoli di qualunque rinascente dittatura, nemica dello sviluppo dell’uomo”. Tancredi si riferisce ai tumulti che scoppiarono a Genova in occasione del Congresso Nazionale del Movimento Sociale Italiano (30 giugno 1960), sotto l’egida di Ferdinando Tambroni, che aveva ottenuto la Presidenza del Consiglio proprio con l’appoggio determinante dei gruppi missini».

I disegni sono stati composti tutti nel 1960, presumibilmente durante l’esperienza parigina dell’artista, e i titoli degli stessi risultano piuttosto stravaganti: si passa dal Matto col semicerchio in mano in cui è semplicemente abbozzata al centro della pagina una figura danzante, dai tratti vagamente dionisiaci, con una chioma e una barba che guizzano al vento come fiamme, a Il sole, il fiore, tra foglie in cui l’elemento naturale, sempre presente nell’opera di Tancredi, si manifesta attraverso il relativo stravolgimento delle forme, da La linea sulla punta del righello, dove una figura antropomorfa con una spaventosa testa caprina e dai tratti nerboruti tiene in equilibrio un righello, a La luna nel cranio, quasi uno schizzo, dove uno dei soliti matti sfoggia metaforicamente una grossa testa piena di escrescenze che si diramano a raggiera, come se si trattasse di una materializzazione dei propri pensieri.

Le tavole riproducono una serie di personaggi grotteschi in cui il matto viene rappresentato nella sua nudità indifesa e stravolta, non di rado con un sesso spropositato che si confonde con il ventaglio irregolare delle mani tozze. Il volto è spesso “imploso” dietro una ragnatela di linee e assomiglia a una maschera caricaturale o dai tratti ferini. I piedi sono enormi, come se le figure, nonostante il loro aspetto sfuggente, fossero ben piantate sul terreno, in contrasto con l’esiguità della figura. La testa è schiacciata, compressa, come quella di un macrocefalo o un microcefalo, il fallo ha perduto ogni caratteristica anatomica per sembrare piuttosto un asparago che spunti dal terreno, le mani conservano soltanto due o tre lunghe dita simili a rami morti, quasi alla stregua di moncherini. Eppure in questa disarmante brutalità, in questa staticità che conserva qualche tratto vegetale e animale, si annida il sentimento, sempre percepibile, del caricaturale, del ridicolo, come se fosse ancora possibile ridere e stupirsi di comportamenti così innaturali e disumani.

Tancredi a Venezia

Il procedimento automatico di Tancredi si orienta verso composizioni che, sulla falsariga dell’esperienza spazialista, propongono figure che si muovono al centro di una spirale o un’ellisse, con tratti che di volta in volta risultano molto marcati o appena accennati. I richiami, all’interno di un ordito grafico riconoscibilissimo, sono molteplici: Picasso, l’arte primitiva, Giacometti, perfino Munch. Ma l’opera di Tancredi non intende mai risolversi in una questione stilistica, volendo farsi portavoce del malessere esistenziale provocato da una tensione sociale che risulta sempre presente nel suo lavoro. Si consideri al riguardo lo sbalorditivo ciclo di tele sul tema della bomba di Hiroshima o gli stessi appunti di carattere politico stilati dal pittore. 

Riferendosi a questo libro, nella succitata lettera a Herdies, Tancredi stesso annotava: «Uno dei concetti base della mia pittura è questo: visto e considerato che non esistono complessi di superiorità ma solo complessi di inferiorità, non esistono soprasviluppati ma solo sottosviluppati. Già nel mio libro dei pazzi ne avvertivo la presenza […]. Quei pazzi itifallici erano la pazzia europea, la mia e quella di tutto il mondo». Bisogna d’altro canto considerare che Tancredi visse sulla propria pelle l’esperienza traumatica dell’ospedale psichiatrico. Dopo soli tre anni dalla pubblicazione delle Tredici facezie e la dolorosa separazione da moglie e figli, il pittore feltrino non lavora più, vende telai e colori e soggiorna presso la sorella a Venezia. Durante l’estate si trasferisce a Roma dove riprende a disegnare i particolari di una realtà che sembra ormai irrimediabilmente statica: il cavalletto, il suo volto sempre più inespressivo, il barattolo con le matite. In questi ultimi disegni sembra aver recuperato appieno la figuratività fresca e un po’ ingenua degli esordi. Ma non è che l’epilogo. Il suo corpo viene recuperato nelle acque del Tevere all’altezza del Ponte Sisto il 1° ottobre 1964. 

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