Pasquale Di Palmo
I deliri del bibliofilo

Non v’è salvezza al di fuori del mostruoso

Così recitava l'ormai introvabile fascetta di “Hilarotragoedia”, libro d'esordio (Feltrinelli, 1964) del “socievole misantropo” Giorgio Manganelli. Con in sovracopertina l'immagine dell'autore in veste di iettatore

Nel 1964 apparve Hilarotragoedia, libro d’esordio di Giorgio Manganelli. Esordio in realtà piuttosto tardivo, qualora si consideri che l’autore aveva passato da un paio d’anni la quarantina. Il volume uscì nella collana «I narratori» di Feltrinelli, con una sovracopertina che riproduceva una curiosa immagine fotografica a colori dello stesso narratore, realizzata da Paolo De Antonis, in cui è possibile rintracciare, in nuce, alcune tematiche presenti nel libro: dall’atmosfera notturna, contrassegnata da un baluginio di riflessi luminosi percepibili sullo sfondo, all’aspetto corpulento dello scrittore in primo piano, che sembra quello di un detective spaesato, trovatosi lì per caso, incapace di optare per una qualsivoglia soluzione atta a risolvere la propria sconclusionata indagine sulla «vocazione discenditiva» d’ogni uomo. Lo scrittore doveva attribuire a questa fotografia un valore vagamente iettatorio, forse per l’abbigliamento – cappotto e cappello rigorosamente neri, quasi a rimarcare lo sguardo tra il divertito e il torvo – che ricorda quello di un becchino. Non si può non pensare alla premessa composta per l’antologia Scrittori della jettatura, pubblicata da Salerno Editrice nel 1980, laddove, sempre in bilico tra ironia e disincanto, si sostiene che «l’uomo può jettare sé medesimo». 

Ma, al di là di ogni divagazione riguardante un’immagine che, in qualche modo, ricorda quelle canoniche di Gadda (un Gadda notturno, atrabiliare, che si materializza come un ectoplasma che sembra rinunciare, considerata la stazza, all’aspetto filiforme che caratterizza lemuri e fantasmi), ci concentreremo sulle altre caratteristiche del volume. Il libro, sul cui piatto anteriore, dalla copertina rigida, campeggia un facsimile della firma di Manganelli, consta di 180 pagine e misura cm 18,5 x 12. Oltre alla scheda editoriale era presente anche una fascetta, ormai introvabile, che riportava la seguente dicitura: «MANGANELLI. Non v’è salvezza al di fuori del mostruoso». In un’intervista l’autore dichiara, a proposito di tale fascetta, che «ogni frammento di vero strappato alla burocrazia del reale è in certo modo mostruoso». Il volume era messo in vendita al prezzo di 1700 lire. La bandella riportava i seguenti dati biobibliografici essenziali: «Giorgio Manganelli è nato a Milano nel 1922. Vive attualmente a Roma dove insegna e si occupa di letteratura inglese. Come critico ha collaborato a L’illustrazione italianaParagoneIl Verri e al Terzo Programma della RAI». Qualche mese prima lo scrittore aveva partecipato, forzando il proprio temperamento schivo, al convegno palermitano del Gruppo 63 (in un’istantanea lo si vede seduto accanto a un altro outsider come Ripellino). 

Non raro, ma piuttosto ricercato sul mercato antiquario, con cifre che oscillano dai 250 ai 350 euro, Hilarotragoedia si può considerare un antiromanzo, in virtù del suo taglio filosofico-narrativo che rievoca quello degli antichi trattati. In realtà molti critici hanno rilevato come l’elemento romanzesco si contamini a più riprese con quello saggistico, creando una sorta di plot narrativo che sembra convogliare in sé una forza che si irradia irrimediabilmente verso il basso, verso il mondo ctonio. Nella bandella figurava una nota dello stesso scrittore che così cominciava: «Il libro che qui si presenta è, propriamente, un trattatello, un manualetto teorico-pratico; e, come tale, ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore: testi, insomma, nati da lunga e affettuosa frequentazione della materia, compilati con diligente pietas da studiosi di provincia, socievoli misantropi, mitemente fanatici ed astratti; e segretamente dedicati alle anime fraterne, appunto ai capziosi deliberatori, ai visionari botanici o, come in questo caso, ai rari ma costanti cultori della levitazione discenditiva».

Il romanzo, privo di una trama articolata che non sia riconducibile a episodi frammentari, a epifanie cognitive che si avvolgono a spirale attraverso un complesso procedimento linguistico, parte proprio dalla «levitazione discenditiva» (il virgiliano Facilis descensus Averno) di cui sfugge ogni più ragionevole premessa. L’autore si lancia infatti in una serie di digressioni speculative caratterizzate da un feroce sarcasmo che sembra annientare qualsiasi tentativo di edificazione di un pensiero che, in virtù della propria astrattezza, sembra derivare dalle machines célibataires di Raymond Roussel, su cui investigò, in maniera altrettanto eccentrica, le marchand du sel Marcel Duchamp. Non è un caso che un critico avveduto come Luigi Baldacci asserisse che questa scrittura sia da equiparare a una «recondita macchina che nell’universo avvicenda fasi di putredine e di secchezza, di disperazione e d’insensibilità». Tra chiose e controchiose, tra postille che risultano più lunghe del relativo enunciato, l’autore distilla «tre gradi di angoscia, come a dire, tre gradi di “no”, di estasi negativa, di catalevitazione», quasi ad anticipare le Angosce di stile, pubblicate da Rizzoli nel 1981, contenenti tredici prefazioni. 

Osserva Umberto Eco: «Gadda dà la mano a Rabelais per raccontarci in un lungo monologo che l’uomo ha “natura discenditiva”; che precipita, muore, si sfa, imputridisce, decade. E che l’universo è la morte continua di Dio». Molto divertente è l’aneddoto raccontato dalla figlia di Manganelli, Lietta, che, dopo essere andata a trovare il padre nel suo appartamento romano, è costretta a nascondersi nello spazio angusto di un poggiolo per non assistere all’incontro con Gadda, infuriato perché ritiene che Hilarotragoedia sia una parodia della Cognizione del dolore, pubblicato l’anno precedente da Einaudi. Forse non proprio a torto se Citati avverte: «Mi sembra, tuttavia, che Manganelli avrebbe fatto bene a togliere, dal suo impasto, qualche dose di Gadda».

Aggiunge ancora Lietta: «Dopo la prima, inquietante, edizione del 1964, quella col Manga in veste di iettatore in sovracopertina, nel 1972 uscirà, sempre per Feltrinelli, la seconda edizione, questa volta adornata di una simpaticissima copertina di Miki Toshiro, con dei divertenti emoticon ante litteram, che sicuramente mio padre deve aver apprezzato». Noi, un po’ imprudentemente, incarnando l’autolesionismo dei bibliofili più accaniti che sfidano dicerie senza costrutto, continuiamo a preferire la princeps alle ristampe, compresa quella adelphiana del 1987, nonostante riproduca un dipinto cinquecentesco (foto a sinistra), quanto mai pertinente, in copertina: un laboratorio alchemico realizzato da Giovanni Stradano in cui ci sarebbe piaciuto armeggiare.

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