Pasquale Di Palmo
I deliri del bibliofilo

Il libretto francescano di Arturo Martini

I tormentati pensieri dell’artista che voleva abiurare la scultura per la scrittura, nella prima edizione di un irripetibile volumetto dimesso, stampato nel 1945 in un numero limitatissimo di copie che l’autore non voleva vendere, ma regalare a chi stimava

Uno dei primi accenni che viene fatto da Arturo Martini al suo pamphlet intitolato La scultura lingua morta si trova nel terzo degli straordinari Colloqui sulla scultura che l’artista trevigiano tenne con Gino Scarpa, in data 26 luglio 1944: «Scoltura solo scoltura, titolo inesatto per il mio libro». Il rapporto di Martini con i libri risale al 1916 quando, per la Stamperia Zoppelli di Treviso, pubblica un fascicoletto contenente le Poesie dell’amico Giovanni Comisso che si trova al fronte, arricchendolo di una xilografia che riproduce, in forma stilizzata, il ritratto dello scrittore di Giorni di guerra. Ma è soprattutto con l’uscita di Contemplazioni, stampato nel 1918 a Faenza presso la Tipografia dei Fratelli Lega, che Martini scrive uno dei capitoli più avvincenti della sua vicenda editoriale. Questo liber mutus, composto di sole immagini, costituisce infatti uno dei primi esempi di libro d’artista. Simile a uno spartito musicale in cui si alternano figure geometriche bianche e nere, il libro deriva da una lunga, ponderata riflessione di Martini sulle derive dell’espressione artistica e linguistica. La stessa concezione religiosa che contraddistingue il valore che Martini attribuisce alla Scultura lingua morta di cui argomenta nella lettera a Scarpa si ritrova anche nella genesi di Contemplazioni. Mirella Bentivoglio osserverà, a proposito di quest’ultimo titolo, che si tratta del primo esempio di «libro il cui contenuto sia costituito esclusivamente da scritture asemantiche». In seguito lo scultore predispose la ristampa di Contemplazioni per ben due volte: a Milano nel 1936 presso la Tipografia Vera e a Venezia nel 1945 presso la Tipografia Emiliana, la stessa che pubblicò anche La scultura lingua morta

Arturo Martini a Venezia

Martini aveva accettato nel 1941 la nomina di insegnante di scultura all’Accademia di Venezia, attribuitagli “per chiara fama”; dopo varie peregrinazioni, si stabilisce dunque nella città lagunare fino al 1945, attendendo al suo nuovo incarico con solerzia ed entusiasmo. Le lezioni che tiene all’Accademia costituiscono un ennesimo tentativo di riflessione intorno al tema prediletto della scultura. Egli abolisce la copia del nudo e, con un linguaggio colorito, intercalato di espressioni dialettali, cattura l’attenzione di un pubblico sempre crescente, composto anche da docenti di altre discipline. Non è un caso che in uno dei Colloqui si legga il presente passaggio: «Una mattina a scuola (fu l’ultima lezione di quest’anno) ho fatto questa domanda agli allievi: un pomo in pittura vale una Venere. Perché un pomo in scultura non vale una Venere? La domanda era sbalorditiva. Da quella mattina (fu nel marzo ’44) ho cominciato a scrivere». In quel periodo la fama dell’artista era all’apice e negli anni che vanno dal 1941 al 1945 lo scultore compose alcuni dei suoi capolavori: la Donna che nuota sott’acqua, la Donna sulla sabbia, il Pegaso caduto, l’Atmosfera di una testa. Gli vennero inoltre commissionate importanti opere come il ciclo degli altorilievi per l’Arengario di Milano o il Tito Livio per l’Università di Padova. Ma lo scultore era particolarmente irrequieto e continuava a interrogarsi sul significato e sul senso ultimo della scultura, come risulta dai colloqui con Scarpa. Non è un caso che, insoddisfatto dei risultati raggiunti nell’ambito delle conversazioni avute con l’amico e in seguito all’incrinarsi dei loro rapporti, Martini decida di interrompere il loro progetto all’inizio del 1945: le ultime sedute si tennero tra il 6 e il 9 gennaio di quell’anno.

A Scarpa e, in un secondo momento, a Gino Damerini, Martini si era infruttuosamente rivolto affinché potessero coadiuvarlo nella stesura del libretto intitolato La scultura lingua morta, in cui molte delle riflessioni confluite nei Colloqui si sviluppano in forma più misurata ed essenziale. Il volumetto, di cm 21 x 14, composto di 52 pagine, presenta una copertina chiara in cui appaiono soltanto il nome dell’autore, il titolo, il sottotitolo Prima raccolta di pensieri e la data: MCMXLV. Fu stampato, come si ricava dalla quarta di copertina, dalla Tipografia Emiliana di Venezia in un numero limitatissimo di copie, non dichiarato. Martini stesso sosterrà di aver fatto imprimere soltanto 50 esemplari, come risulta dalla breve ma significativa lettera inviata a Silvio Branzi in data 30 maggio 1945 da Venezia: «Caro Branzi, ecco l’oracolo, che spero in seguito aumentare con altri pensieri. L’edizione è di cinquanta copie ed è in vendita a 500 lire. Ma vorrei che avesse una data di nascita e dovrebbe lei tenerlo a battesimo con un articolo, qualche copia sarà esposta da Ongania, ma sono geloso e non vorrei venderlo, ma mandarlo da Benedetto Croce a tutti i filosofi che stimo e critici d’arte».

Martini aveva il complesso di non saper scrivere, in quanto la sua carriera scolastica aveva avuto un esito fallimentare: a dodici anni infatti frequentava ancora la terza elementare. Da qui il continuo ricorso a critici e letterati per la revisione dei suoi testi. Il libretto riveste particolare importanza nell’opera di Martini perché lo scultore si era ripromesso con questa pubblicazione di abbandonare la scultura, rea di non riuscire a esprimere, come le altre arti, le potenzialità insite nel suo creatore. La scultura, alla stregua di una “lingua morta”, non riesce a svincolarsi dal concetto stesso di monumentalità o a rapportarsi al mondo con la naturalezza con cui Dante adoperava il volgare: «La scultura resta quello che è: lingua morta che non ha volgare, né potrà mai essere parola spontanea fra gli uomini».

La prima edizione di “Scultura lingua morta”

La natura aforistica dei pensieri martiniani si carica di inflessioni dialettali che la rendono riconoscibile e singolare. Come per certe sue sculture, in cui la complessità dell’elemento plastico viene compensata dall’espressione puerile di un volto, la scrittura di Martini si iscrive in forma nitida sulla pagina e, al tempo stesso, ricca di ulteriori sollecitazioni. I pensieri sembrano raccogliersi intorno a un nucleo ristretto di argomenti per sciamarvi come api sul favo. L’ossessione di Martini, così presente anche nei Colloqui con Scarpa, sembra quella di convincere se stesso che la scultura rappresenta qualcosa di inutile, di inerte. Ma più ci addentriamo nella lettura più paradossalmente Martini ci convince del contrario. E l’impressione che proviamo è che lui stesso sia irrimediabilmente convinto del contrario. Martini ha bisogno della scultura quanto la scultura ha bisogno di Martini. 

Martini aveva sempre espresso il desiderio di integrare con altri scritti il suo libello. Sappiamo dalla testimonianza di Antonio Pinghelli, incaricato di trascrivere le sue ultime osservazioni sull’arte, che stava lavorando a un nuovo libro: «La cosa certa è che, un mese prima di morire, preparandosi in Verona la seconda edizione, bodoniana, del suo libro, confidò a Mardersteig che, per il momento, rinunciava ad aggiungere nuovi pensieri, non ritenendoli ancora sufficientemente compiuti. Si riservava di raccoglierli, eventualmente, in un altro libretto». Martini non fece in tempo a vedere la ristampa della Scultura lingua morta, in quanto morì improvvisamente il 22 marzo 1947 a Milano, ad appena cinquantasette anni. 

L’anno dopo il suo pamphlet venne riproposto dall’Officina Bodoni di Mardersteig in una magnifica edizione in-8°, tirata in 200 esemplari numerati, di cui 50 fuori commercio destinati agli amici dell’autore. Data l’esiguità della tiratura nel 1960 venne allestita un’ulteriore ristampa, curata da Mario De Micheli, che metteva a confronto le lezioni del 1945 e del 1948 con l’aggiunta di altri cinque scritti. Il libro, che riproduce anche alcune tavole fuori testo, fu pubblicato dalla Galleria d’Arte Spotorno di Milano in un’edizione di 1000 esemplari numerati. Ma, nonostante l’indiscussa bellezza di questi volumi, noi continuiamo a preferire l’aspetto dimesso, quasi francescano, commovente nella sua lineare semplicità, di quel primo libretto, privo di qualsiasi orpello, essenziale come i pensieri del suo tormentato autore. 

Facebooktwitterlinkedin