Pasquale Di Palmo
I deliri del bibliofilo

La vita acre dei segni

Leonardo Sinisgalli fu uno dei pochi ad accorgersi del valore di Lorenzo Calogero, prima che il “caso letterario” scoppiasse dopo la morte prematura del poeta calabrese. Imbattersi in una delle sue raccolte pubblicate in vita, come “Parole del tempo”, è un’impresa quasi impossibile

La vicenda esistenziale e letteraria di Lorenzo Calogero si configura, nella sua apparente marginalità, come una delle più emblematiche di quel «sottobosco» poetico che ha caratterizzato gran parte del nostro Novecento. Nato nel 1910 a Melicuccà (Reggio Calabria), Calogero visse un’esistenza schiva e appartata, ripiegata sul sogno costante di diventare un poeta di rilievo. Dopo aver studiato ingegneria passò alla Facoltà di Medicina a Napoli, dove si laureò nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica fino al 1955, dedicandosi quasi esclusivamente agli studi filosofici e alla scrittura. Calogero riempiva febbrilmente quaderni e quaderni di versi e annotazioni diaristiche che rappresentano un’inimitabile summa della sua concezione letteraria, vissuta con dedizione quasi religiosa. Questi suoi tentativi poetici, intrapresi sulla falsariga delle numerose letture degli autori a lui congeniali, soprattutto di derivazione ermetica o post-ermetica, determinano la ricerca assidua di un sodalizio intellettuale o un riconoscimento da parte delle istituzioni che, con l’unica parentesi del Premio Villa San Giovanni attribuitogli nel 1957 su intercessione di Leonardo Sinisgalli, non avverrà mai. 

Lorenzo Calogero

Calogero pubblica a proprie spese, nell’indifferenza generale di pubblico e critica, le raccolte poetiche Poco suono (Centauro Editore, Milano, 1936) e per le piccole edizioni Maia di Siena Ma questo…(1955), Parole del tempo (1956) e Come in dittici (1956) che presenta un’importante prefazione di Sinisgalli. «Un’opera così serrata non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo. Il poeta ha rifiutato i soccorsi delle retoriche più fertili: l’incanto del numero, della simmetria, degli accenti, gli attriti degli oggetti, delle occasioni, della memoria. Si è fidato soltanto delle sue capacità espressive, di una vitalità insita nel linguaggio (la “vita acre dei segni”), per cui l’arabesco, che è senza dubbio l’acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno ma diventa esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale» avverte Sinisgalli in tale scritto.

Calogero si ritira così nella sua casa di Melicuccà dove, tra un ricovero e l’altro per disturbi di origine nervosa, vive in solitudine, trascorrendo il tempo studiando e scrivendo. Qui muore nel 1961, in circostanze mai chiarite, poco più che cinquantenne. «Meglio morire / che vedere la propria distruzione» recitano alcuni suoi versi. Dopo la sua scomparsa scoppia il caso Calogero. Una scelta delle Poesie di «Villa Nuccia», programmata quando l’autore era ancora in vita, viene ospitata in un numero della rivista «L’Europa letteraria», diretta da Giancarlo Vigorelli. La presentazione non poteva che essere di Sinisgalli, uno dei pochi intellettuali che si era adoperato per sostenere quell’autore atipico e febbrile che aveva fatto della dimensione poetica un vero e proprio status di fede. L’intervento di Sinisgalli fu affiancato da un importante contributo di Giuseppe Tedeschi che si innamorò a tal punto della poesia di Calogero da divenirne uno dei principali referenti. Per le sue cure uscirono infatti i due ponderosi volumi delle Opere poetiche nella prestigiosa collana dei «Poeti europei» della Lerici, rispettivamente nel 1962 e nel 1966.        

Dopo la morte ci furono riconoscimenti postumi di un certo rilievo (da Montale sul Corriere della Sera a Caproni ad Amelia Rosselli che, per un certo periodo, lavorò sulle carte del poeta di Melicuccà), anche se, con il passare del tempo, il silenzio e l’oblio continuarono a incombere sopra quest’opera, caratterizzata da un furor creativo davvero spropositato. Se infatti sono rintracciabili esiti quanto mai originali nella lirica calogeriana, talora una certa naïveté appesantisce un dettato risolto in una visionarietà in cui interviene sottotraccia la graduale dissoluzione degli elementi naturali rilevati. E non sarà secondario asserire come tutto questo derivi dalla dicotomia tra la formazione scientifica dell’autore e il trasporto emotivo che lo coinvolge nella stesura di versi che si connotano per una loro conformazione irregolare, quasi sbilenca, che tuttavia contiene autentiche perle: «Datemi quel tanto che mi spetta / e me ne vada: / ho le labbra arse secche: / schiume di cavalli. / Sono vano per troppo aspettare. / Sento la mia pupilla affogare / in un labile pianto. / Tendetemi la mano / ed accoglietemi nel grembo vostro: / mai desiderai la morte / come in questo momento».    

Il poeta ci ha lasciato una mole imponente di testi, in gran parte ancora da studiare e catalogare: più di ottocento quaderni riempiti di una scrittura fitta e regolare che, dopo varie vicissitudini, sono pervenuti in quella che potrebbe considerarsi la loro sede naturale, l’Università della Calabria, dove si è costituito un apposito fondo. Se è possibile trovare con relativa facilità i due volumi postumi delle Opere poetiche di Lerici, risulta impresa oltremodo ostica imbattersi in una delle raccolte pubblicate in vita. La piccola casa editrice Maia di Siena pubblicava la rivista di lettere e arti «Ausonia», diretta da Luigi Fiorentino, oltre a raccolte poetiche a pagamento di autori poco conosciuti (ma anche di Corrado Govoni, Adriano Grande, Aldo Capasso, Ettore Serra, Giovanni Titta Rosa). Parole del tempo venne pubblicato in una tiratura di 500 copie numerate, impreziosita nel colophon dalla firma autografa di Calogero. Il libro, in-16°, risalente al 1956, consta di 236 pagine, presenta al piatto un riquadro giallo su fondo bianco dove appaiono nome dell’autore, titolo e, in basso, casa editrice; in quarta di copertina figura il prezzo di 1000 lire. La raccolta, ristampata da Donzelli nel 2010 a cura di Mario Sechi e con un’introduzione di Vito Teti, comprende una lunga premessa dell’autore. A causa dell’esiguità delle copie circolate in questi anni sul mercato antiquario è difficile fare una valutazione attendibile: l’unico esemplare in commercio di cui è rimasta traccia in rete costava poco meno di 500 euro.

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