Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Missione Appia

Da Roma a Brindisi, 630 chilometri a piedi in un mese sulla Regina Viarum, documentati in centinaia di scatti dal fotografo Giulio Ielardi, ora in parte esposti nel Complesso di Capo di Bove. Un invito al cammino e al rilancio delle potenzialità di un percorso radicato nella Storia

Giulio Ielardi ha il corpo magro e nervoso del camminatore. È cresciuto come fotografo naturalista, ma si è appena “laureato” fotografo viandante. Perché in un mese ha percorso 630 chilometri, poco più di venti al giorno, con uno zaino di 12 chilogrammi esatti sulle spalle. Per la precisione, ha camminato da Trastevere, dov’è casa sua, a Brindisi. Dai sampietrini della caput mundi al basolato della Regina Viarum. L’Appia è stata la sua missione: un trekking e decine, centinaia di scatti fotografici. Memore del cammino che nel 2015 fece Paolo Rumiz, raccontandolo a puntate su La Repubblica e poi in un libro. Un anno dopo fu ufficializzata la nascita del Parco Archeologico dell’Appia.

Anche Ielardi ha tenuto un diario del proprio tour. E una cinquantina delle sue fotografie sono adesso in mostra nel luogo più emblematico, visto il loro tema: nel Complesso di Capo di Bove, una delle prime stazioni di sosta della via antica, dove è sistemato l’archivio del suo maggiore nume tutelare, Antonio Cederna. Il giornalista che nel 1953 titolò a tutta pagina sulle colonne de Il Mondo “I gangster dell’Appia”, ed erano gli abusivi più o meno blasonati che mettevano le mani sulla consolare più famosa. Still Appia, il titolo dell’esposizione, a cura di Luigi Oliva e del direttore del Parco Simone Quicili, fino al 9 ottobre, Giornata del Camminare: still in fotografia significa “in posa”, “natura morta”; in inglese “ancora”: una continuità che resiste da duemila anni. 

Centro commerciale all’ingresso di Brindisi

«Non voglio che le mie fotografie siano giudicate belle, voglio che di esse si dica che sono interessanti», suggerisce Ielardi. E infatti sono l’occhio che indaga in un territorio sublime ma altamente antropizzato, dove spesso l’Appia scorre come una falda sotterranea. Racconta, spigolando tra i suoi trenta giorni di cammino in solitaria: «Un sindaco mi dice: ma lo sa che durante gli scavi di cantiere abbiamo trovato un basolato? Sarà l’Appia? Già, si cammina per giorni senza vederla, l’Appia. Ma è sotto i nostri piedi, nascosta dai campi coltivati e dai rovi, o dall’asfalto, o da un negozio, un’edicola, lo spiazzo davanti a un palazzo. Però di un fatto mi sono convinto: quel cammino è una riscoperta delle radici, come quando ho ritrovato un leone in pietra all’uscita di un centro commerciale». E infatti l’ultima foto della mostra (e del bel catalogo Gangemi), là dove la strada termina e una colonna di marmo certifica il traguardo ritrae l’insegna di un mall pugliese. Il massimo del kitsch con l’immagine di un gigantesco peperoncino. Ma la scritta è dotta, uscita appunto da inconsapevoli radici: “Brundisium via Appia” campeggia sopra il disegno stilizzato di acquedotti, pini marittimi, alture.

La mostra è un invito al cammino ma è anche funzionale al progetto di renderla tutta praticabile a piedi, lungo il centinaio di Comuni che le stanno attorno. Sono le potenzialità dell’Appia che vanno facilitate, insieme con la conquista della sua percezione da parte di chi la abita. Venti milioni sono pronti per mettere in sicurezza il cammino attraverso quattro regioni, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia. Il profilo Instagram @apiedilungolappia e la pagina Facebook L’Appia a piedi, da Roma a Brindisi lanciati da Ielardi prima della partenza hanno ora un gruppo cospicuo di followers: escursionisti, appassionati delle radici storico-archeologiche, paladini del patrimonio culturale, storici dell’arte, propugnatori del diritto a una mobilità sostenibile, difensori dell’ambiente e del paesaggio, artisti, cittadini della Capitale e abitanti delle comunità lungo il tracciato. Che magari durante le giornate festive di primavera, da Pasquetta al Primo Maggio avranno voglia di cominciare l’esperienza sul basolato o su quanto lo cela.

Resto di una statua romana nel centro storico di Benevento

E intanto la coscienza della strada costruita a partire dal 312 avanti Cristo, ponte verso l’Oriente, si può nutrire delle fotografie in mostra a Capo di Bove e sui canali social: in nessun caso cartoline, invece «paesaggi sospesi, spesso privi di figure umane ma mai privi dell’intervento dell’uomo» (scrive Francesco Zizola in catalogo). Le pietre del basolato, intanto: come un quadro astratto, grigie, traslucide, quelle al VI miglio. A Ponte di Mele, nel comune di Velletri, ingaggiano un corpo a corpo con l’asfalto; a Frattocchie (Marino) si interrompono bruscamente, cedendo il passo a una carrozzabile asfaltata. Sorprendono certi scorci: i resti del Capitolium di Terracina davanti alle case del centro; i palazzi a sei piani di Santa Maria Capua Vetere dietro le arcate dell’anfiteatro romano (secondo per grandezza solo al Colosseo); la statua romana nel centro storico di Benevento imprigionata nel muro di una casa e, nella stessa città, l’area archeologica di Sacramento stretta tra gli edifici. Poi le immagini di solitarie campagne, bruciate dal sole: casali in abbandono eretti dopo la riforma fondiaria degli anni Cinquanta verso Maschito (Potenza) e quello vuoto e muto nelle campagne di Genzano di Lucania; il tratto dell’Appia nella Murgia Catena, negli aridi splendidi campi di Altamura; il faccia a faccia tra la diga sulla gravina Gennarini e un ponte di presunta età romana, in vista di Taranto. Fino a incontrare, in dirittura d’arrivo, le mura possenti della città messapica di Muro Tenente, tra Mesagne e Latriano…

Aggiunge colore ed elementi di conoscenza antropologica il diario di Ielardi. Un brano del giorno 11 di viaggio: «…Entriamo nella provincia di Benevento (e più avanti breve incursione in quella di Avellino) tra coltivi di noci e ulivi e i primi castagni. Il paesaggio cambia e l’Appia sale piano tra le colline verso la Valle Caudina. A Farchia la traccia lascia l’Appia e così ci infiliamo tra villette solitarie regno dei cani padronali che mugulano ai camminatori, poi la Farmacia Padre Pio addirittura a due piani. A Forche Caudine di scolastica memoria, dove i romani persero la battaglia e subirono l’umiliazione dei sanniti, adesso c’è Arpaia. Giusto sull’Appia uno studio legale ha il suo ingresso tra due cippi romani. Poi oltre il cimitero la vista già spazia verso Montesarchio…».

È un caleidoscopio di epoche, imprese, violenze e affari, bucoliche e georgiche, marinai e Italsider, l’Appia. Capace di suscitare rimpianti, acquerelli e versi, come nei visitatori del Grand Tour. Perfino di nascondere sotto la sua terra sentimenti amorosi. Proprio a ridosso della Tomba di Cecilia Metella, appunto nel complesso di Capo di Bove, notiamo un reperto esposto in una bacheca, le lettere di uno sconosciuto innamorato per la sua amata. Avvolte in un foglio di pergamena ornato da una lettera L, erano nascoste in un tubo di piombo sul quale è incisa la data 30/9/1929, quando la via Appia non era stata ancora aggredita dall’edificazione residenziale ma meta di passeggiate archeologiche. Furono rinvenute durante scavi eseguiti nel 1999 presso il sepolcro cosiddetto Dorico al Quarto Miglio. «Se potesse misurare la dolce commozione, l’incanto, la bellezza dell’istante in cui le mie mani stringono i suoi scritti, comprenderebbe pienamente la mia riconoscenza…», scrive l’infelice appassionato. Tra le storie dell’Appia Antica anche questa merita di essere divulgata ai followers di Ielardi.

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