Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il blu e il cianuro

“Quando abbiamo smesso di capire il mondo”, il romanzo di Benjamín Labatut, è un singolare esempio di narrativa che attraversa i generi. Dalla scienza alla storia, sempre sul filo della realtà e del paradosso

Partiamo dal titolo, che nell’originale è Un verdor terrible e trova una sua spiegazione solo quando si arriva (presto, perché è un libro che si legge rapidamente e con interesse) al capitolo finale. In italiano, vista (immagino) la difficoltà di trovare un equivalente al termine verdor, che definisce sia la qualità di ciò che è verde, sia il vigore della vegetazione che questo verde intenso produce, si è preferito un titolo altrettanto bello, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 180 pagine, 18 Euro), che è però in parte fuorviante. Ricalca, ma non completamente, il titolo inglese When We Cease to Understand the World, il quale, se proprio ci si vuole discostare dall’originale, sembra più corretto, perché il libro è (anche, ma non solo) una carrellata di momenti storici in cui le migliori menti, quelle allenate e all’avanguardia degli scienziati, non riescono più a rendersi pienamente conto del funzionamento del mondo. Non un solo frangente o una battuta d’arresto puntuale, dunque, ma una serie apparentemente interminabile di pesantissimi fallimenti dell’uomo e del pensiero umano, che in qualche modo segnano il limite delle nostre facoltà intellettive. D’altro canto, “defeat shapes us”, si dice già nell’epigrafe, e dunque così sia.

Benjamín Labatut, autore di questo e di un altro paio di libri non tradotti da noi (La Antártica empieza aquí e Después de la luz), ha anzitutto la rara capacità di trovare subito la tonalità adeguata al suo romanzo sui generis, una tonalità saggistica e discorsiva che ben si adatta agli argomenti trattati. Si parte dalla tossicodipendenza di Göring e dei soldati tedeschi, fra i quali lo scrittore Heinrich Böll, durante la seconda guerra mondiale – i soldati venivano riforniti regolarmente di un farmaco chiamato Pervitin, che ne alterava e rafforzava le percezioni, fino a creare dipendenza – e poi, con scarti progressivi ma sempre perfettamente motivati, si passa alla creazione, da parte di Diesbach, un fabbricante svizzero di pigmenti, e soprattutto del suo assistente, l’alchimista Dittel, del blu di Prussia, colore che avrebbe rivoluzionato l’arte e creato ingenti ricchezze, e alla scoperta del cianuro, a opera del chimico Scheele, proprio a partire dal blu di Prussia e dalla sua contaminazione con l’acido solforico. Labatut ci ricorda la parabola umana del matematico Turing, che si suicida appunto con una capsula di cianuro, per poi descrivere gli attacchi col gas durante la Prima guerra mondiale, con un’attenzione particolare per Ypres che ne fu la prima occorrenza e per il chimico che li rese possibili, Fritz Haber, la cui moglie si sarebbe suicidata nel corso di una festa dopo aver intuito, con maggiore chiaroveggenza rispetto allo stesso Haber, le conseguenze nefaste per l’intera umanità delle invenzioni e scoperte del marito. Non tutte, peraltro: perché avendo trovato fra l’altro anche il procedimento utile a ricavare azoto dall’aria, Haber riesce a prevenire una terribile carestia salvando milioni di persone da morte certa. Tutto questo, e altro, nel primo capitolo o racconto della serie (una ventina di pagine): e già da questo si comprende quale sarà la densità dell’opera, che si sviluppa appunto lungo una serie di testi apparentemente scollegati e in realtà uniti da un sottile ed elegante fil rouge.

Non farò qui il riassunto del libro; mi limiterò a dire che fra i protagonisti dei capitoli successivi troviamo (in ordine alfabetico) Bohr, de Broglie, Einstein, Grothendieck, Heisenberg, Schrödinger, e quindi tutto il gotha della matematica e della fisica del Novecento, e che Labatut riesce ad appassionarci alle loro vicende dandoci quando occorre delle spiegazioni forse relativamente elementari, ma che hanno il merito di illuderci sul fatto che si sia finalmente (anche noi) riusciti a capire qualcosa di una materia che per la maggior parte dell’umanità resta astrusa e inconoscibile. Ma l’abilità del narratore sta naturalmente anche in questo, nel saper dosare e applicare i trucchi del mestiere, rifugiandosi nel racconto (e quindi in una minore aderenza alla realtà fattuale e biografica) quando è necessario sfumare sulle nozioni prettamente scientifiche e dare maggior corpo alla figura dello scienziato di volta in volta descritto. Lo stesso Labatut ha del resto ammesso di aver aggiunto situazioni immaginarie, e insomma romanzato, sempre di più man mano che il racconto procedeva: con esiti a mio avviso alterni, che mi fanno preferire, anche dal punto di vista stilistico, la prima parte. Nella seconda ravviso infatti qualche barocchismo e qualche caduta di stile che una maggiore esperienza gli avrebbe evitato, ma sono in ogni caso dettagli a fronte dell’ottima riuscita generale del libro.

L’interesse di Labatut va tutto ai momenti alterni di costruzione e smentita delle teorie scientifiche, dai buchi neri alla meccanica quantistica, e soprattutto alla passione e al vigore necessari per crearle e confutarle, creando immagini della realtà sempre nuove e a volte universi incomprensibili di cui – come pare sia accaduto per esempio al giapponese Moshizuki – il fisico può anche essere l’unico abitante e nel cui alveo neanche gli altri scienziati e specialisti della stessa materia possono seguirlo. Il fil rouge di cui parlavo poc’anzi è allora rappresentato in primo luogo da una specie di ossessione epistemologica, da una fascinazione per tutto quanto ci sia in prima battuta arcano e incomprensibile e il cui svelamento possa rappresentare il compito e la missione di una vita. I personaggi che animano queste pagine sono infatti scienziati che spesso hanno sacrificato tutto (l’amore, l’amicizia, il denaro, la carriera, il più delle volte anche la salute) al tentativo, sovente vano, di fare almeno un po’ di luce nell’oscurità che sembra circondarci.

Non che siano mancati, negli ultimi anni, i tentativi di avvicinarsi alla fisica nucleare e alla meccanica quantistica e di renderla (un po’ più) accessibile, e non mi riferisco solo a opere di divulgazione scientifica, ma anche alla narrativa (quasi) pura. Si pensi solo a Le chat de Schrödinger del francese Philippe Forest (in italiano Il gatto di Schrödinger, edito da Del Vecchio), in cui il narratore parte dal noto paradosso del fisico austriaco e dalla presenza a intermittenza, per un anno, di un gatto nella sua propria vita (gatto che risulta vivo solo quando gli è visibile…) per lanciarsi in una serie di considerazioni sul nostro difficile rapporto con la realtà fisica, un rapporto univoco e meccanicistico che nei fatti esclude tutte le eventuali realtà parallele presenti (forse) in altri universi, e per riflettere al tempo stesso sulle numerose biforcazioni che presiedono a ogni vita umana e che affrontiamo scegliendo alla fine una sola strada, senza poter sapere dove le altre potrebbero condurci. Dovendo accettare en passant, aggiungo, come nel caso dello stesso Forest, la scomparsa e l’assenza delle persone che ci sono care. Rispetto a quello dello scrittore francese, l’approccio di Labatut ai misteri scientifici è forse più freddo e meno emotivamente coinvolto, ma risulta più convincente in termini di aderenza all’argomento trattato e di rigore gnoseologico.

Ma tra i libri di fiction ispirati al mondo scientifico questo di Labatut appare di gran lunga superiore, soprattutto nella ferrea logica della sua articolazione interna, anche rispetto a I vagabondi (Bompiani) dell’acclamata Olga Tokarczuk, che, malgrado qualche buon frammento, con le sue lungaggini mi è sembrato piuttosto irrisolto e pretenzioso.

Nell’ultimo capitolo del libro – e qui ritorniamo al discorso generale che facevamo all’inizio in merito al titolo dell’intero volume – Labatut immagina, ricorrendo ora anche formalmente al genere dell’autofiction, un incontro con un misterioso giardiniere, che gli dimostra come, malgrado tutte le malattie che colpiscono uomini, animali e piante, la vita continui a riprodursi incessantemente, e addirittura si dia il massimo della fioritura subito prima che il soggetto si avvii alla fine, in un modo che (ancora una volta) sfida la nostra comprensione, proprio come le teorie sull’universo presentate in precedenza.

Per concludere, una notazione sull’edizione italiana di Adelphi, che è di pregevole fattura, ma contiene un paio di svarioni, emendabili nelle edizioni successive. Tanto per fare un esempio, credo che tutti concordiamo sul fatto che “acerrimo” sia già un superlativo, ragion per cui leggere “più acerrimo” a p. 161 può nuocere alle coronarie del lettore… (Sebbene su questo sbagliasse, a quanto pare, anche Pirandello.) All’inizio di p. 43 c’è una strana apposizione, che non si lega al soggetto della frase e che andrebbe spostata. A p. 50, nel titolo di un articolo di Schwarzschild c’è anche un Krümmungsmass scritto con una “a” di troppo, ma questo – ne convengo – è un peccato veniale e non rappresenta un ostacolo al piacere del testo e alla lettura del libro, che mi sento comunque di consigliare caldamente.

Facebooktwitterlinkedin