Marta Morazzoni
Ricordando il campione scomparso

Il fischio di un treno e Paolo Rossi

A Gallarate, l’urlo del macchinista che conduce il Milano-Domodossola-Ginevra-Parigi, amici riuniti in una villa per vedere la finale, il tricolore regalato dal sindaco, tenuto riposto e poi, in quel Mondiale del 1982, sventolato fino a lacerarlo...

Il treno ha fischiato non è una novella di Pirandello, è il Milano-Domodossola-Ginevra-Parigi, segnale fuori ordinanza che il macchinista del Domodossola ha lanciato a tutto fiato, prendendo la curva larga tra i due passaggi a livello che preludono alla stazione di Gallarate. Un fischio infinito, e il macchinista affacciato al finestrino che grida più forte del fischio. È la sera dell’11 luglio. Naturalmente è il 1982. 

La casa di mia madre, dove abitavo anch’io, in corso Sempione, era di fianco alla ferrovia, la linea Milano-Domodossola-Ginevra-Parigi. Con il treno ho avuto sempre una bella confidenza, una volta, avevo sette anni, in bicicletta l’ho sfidato a chi sarebbe arrivato prima al secondo passaggio a livello, e il macchinista dal finestrino del locomotore mi incitava! Aveva la camicia azzurra con le maniche rimboccate. 

La sera dell’11 luglio eravamo una quindicina nel soggiorno della mamma e la mamma era in vacanza a Monaco di Baviera. C’era gente che ho completamente dimenticato, amici di amici, la sorella di qualcuno, una ragazza coi capelli ricci che non ricordo di aver mai più visto. La casa della mamma era una villa, si poteva far rumore senza disturbare nessuno, posto che qualcuno, quella sera in Italia, avesse da recriminare sul disturbo. Non mi ricordo la partita, ma non serve ricordarla, basta digitare Itala Germania 1982 e la si rivede tutta, minuto per minuto. Quello che cerco di ricordare è il nostro gruppo scompaginato, forse amici di un momento mischiati insieme agli amici di anni, una catena di relazioni che si era allungata per l’occasione, era cresciuta a mano a mano che l’Italia vinceva prima contro l’Argentina, e il Daniele che scende le scale dell’ufficio saltelloni: «Abbiamo vinto, madosca!» (Per inciso: da noi il termine, correttivo di un’involontaria bestemmia, si usa molto), poi col Brasile, poi con la Polonia, ma la Polonia fa meno effetto delle streghe sudamericane. 

L’effetto di paura lo faceva la Germania, ed era una paura storica, dentro cui si mischiavano rivalsa e soggezione. Pensavo alla mia mamma a Monaco di Baviera, chissà se avrebbe guardato la partita! Di sicuro sapeva che la sua casa stava per essere invasa da un manipolo di barbari che non avrebbero risparmiato il divano, avrebbero scomposto la disposizione delle poltrone e, magari, urtato i soprammobili, per esempio il cigno bianco e il cigno nero  di porcellana di Tapio Wirkala, finlandese. Avevamo il tricolore ed era della nostra amica italo cinese, un regalo del sindaco di Milano Aniasi, quando le aveva conferito la cittadinanza italiana. L’avevamo e lo tenevamo chiuso. Dopo l’avremmo sventolato fino a lacerarlo. Della sera nel suo insieme ho la memoria confusa, tranne per il fischio del treno, lungo e agganciato al nostro urlo a finestre spalancate e affacciate sulla ferrovia. Doveva essere il diretto per Milano centrale delle 21 e 12. quindi era il goal di Paolo Rossi. 

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