Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Piazza Vittorio e i giardini ritrovati

Intitolati a Nicola Calipari, il poliziotto che pagò con la vita la liberazione di Giuliana Sgrena, sono al centro della piazza più grande di Roma. Tra i ‘luoghi del cuore’ del Fai, dopo il restyling sono ora un piacevole e ottimo punto d’osservazione sulla storia e la grande bellezza della città

L’apertura è avvenuta in sordina, causa coronavirus. Eppure erano venti anni che Roma aspettava di poter varcare la splendida cancellata che cinge il giardino di Piazza Vittorio, anzi i “Giardini Nicola Calipari”, come sono stati rinominati in omaggio al poliziotto che pagò con la vita la liberazione di Giuliana Sgrena. In mascherina, controllati da una coppia di vigili urbani che percorre i vialetti tra le aiuole verdi, i romani, anzi gli abitanti dei rioni Esquilino e Monti – tra i più multietnici della Capitale – hanno potuto riappropriarsi di uno spicchio di città che conserva memorie stratificate. È l’incipit della definitiva riqualificazione della piazza più grande di Roma (316 metri per 174), una “piazza parigina” un po’ per le sue dimensioni, un po’ per il porticato sui quattro lati sottostante ai palazzi ottocenteschi? Dal Campidoglio proclamano di sì, e, se la promessa sarà mantenuta, se la promenade sotto i portici dal pavimento “brizzolato” di marmo magari rimesso a lustro sarà un giorno libera dalla casbah delle bancarelle, davvero la passeggiata a piazza Vittorio potrà costituire una meta pregiata.

Intanto, godiamoci il giardino, a partire dai suoi sfondi. Da un lato il campanile e la cupola di Santa Maria Maggiore, la basilica della neve ad agosto, dall’altro l’alberata che, quando cadono le foglie, svela qualche dettaglio di Santa Croce in Gerusalemme, il tempio memore della reliquia portata a Roma da Elena, la madre dell’imperatore Costantino. Ma poi, dentro, come indizi di una macchina del tempo, ecco vestigia di svariate epoche. Rimaste soffocate prima dalle bancarelle del mercato (nel 2002 trasferito al coperto nell’ex caserma Sani, tra le vie Turati e Principe Amedeo), poi dalle alte siepi dietro alle quali si nascondevano rifiuti e individui che molto avevano da celare; infine dai “baldacchini” in cemento tirati su per circoscrivere le prese d’aria della metropolitana e gli accessi all’impianto degli uffici di controllo della stessa. Invece adesso – grazie alla collaborazione di agronomi, architetti, ingegneri e restauratori della Sovrintendenza Capitolina – il giardino si giova di un aspetto “trasparente”: lo sguardo può spaziare sui quattro lati, trovando prati squillanti all’interno di grandi aiuole e guidato dalla ortogonale pavimentazione di travertino inframmezzato da strette lastre brune, un color terra che si replica nei camminamenti laterali, in cemento ecologico rossiccio.

Si passeggia così all’ombra delle palme, segno distintivo dell’originale oasi dallo stile esotico, inaugurata poco dopo l’Unità d’Italia, nel 1888, con profusione di fiori, cascate e laghetti. Ora vi ritroviamo anche un roseto, magnolie e cespugli di amarilli, gelsomini gialli, sterlitzie, margherite gialle e bianche, ogni bocciolo pronto ad aprirsi in una delle quattro stagioni. Un teatro all’aperto, con le gradinate strette e alte promette spettacoli quando finirà la pandemia. Una collinetta di verdissima erba che insieme alla scalinata copre i manufatti della metro ed è introdotta da un mosaico multicolore di foglie in ceramica firmate ciascuna da un bambino, permette uno scorcio dall’alto. Allora emergono i “pezzi” più antichi del giardino. Sono le vestigia del Ninfeo di Alessandro Severo, datato 226: era la fontana-mostra dell’Acquedotto Claudio, consisteva in un alto basamento a forma di trapezio. La facciata era rivolta verso il punto cardinale dove poi sorse Santa Maria Maggiore e consisteva in una grande nicchia su un bacino d’acqua fiancheggiato da due archi. Ne rimane in parte quello di sinistra, una mole che caratterizza il rudere e che conteneva, come quello di destra, i cosiddetti Trofei di Mario, in candido marmo, epoca domizianea. Il papa urbanista Sisto V li trasferì sulla balaustra di piazza del Campidoglio ma essi ancora danno il nome ai resti antico-romani del Giardino Calipari.

Un salto di millequattrocento anni per arrivare a un altro rudere capace di suscitare meraviglia. È la cosiddetta Porta Magica, ossia quanto rimane, dopo l’abbattimento motivato dalla realizzazione di piazza Vittorio, della villa appartenente al marchese Massimiliano Palombara, vissuto dal 1614 al 1685. Un personaggio enigmatico: era amico di astrologi e alchimisti, ospitati spesso nel giardino segreto annesso alla residenza per discettare dei misteri dell’occulto. Uno dei pallini di Palombara era la creazione per via alchemica dell’oro. Sicché quando gli si presentò uno strano viandante chiedendogli un po’ di soldi e un ambiente per creare la pietra filosofale, il nobiluomo non stette nella pelle. Tutto concesse, ricevendone in cambio, allorché lo sconosciuto se ne andò, la formula per ottenere l’oro: così astrusa nel miscuglio di latino e segni simbolici che né Palombara né i suoi sodali riuscirono a interpretarla. Non rimase che inciderla sulla porta di accesso alla villa, nella speranza che qualche passante riuscisse a comprenderla. Resta l’eleganza eclettica della Porta, oltre al fascino del mistero e delle massime inscritte tra la volute barocche sopra l’architrave (Tria sunt mirabilia deus et homo mater et virgo trinus et humus ovvero “Tre sono le cose meravigliose: Dio e uomo, madre e vergine, trino e uno”) .

Ancora un balzo nei secoli e si approda al Ventesimo e alla Fontana firmata da Mario Rutelli, il bisnonno scultore dell’ex sindaco. Il restyling del giardino la valorizza circondata com’è da una vasca a doppio giro tondeggiante di travertino, mentre in principio era “immersa” in una brutto cratere di cemento. Rappresenta “Tre tritoni, un delfino e un grosso polpo” (nella foto sotto), sicché i salaci romani la soprannominarono “fritto misto”. Anticipando così la vocazione mangereccia di piazza Vittorio che a partire dagli anni Trenta del Novecento si trasformò in un enorme mercato, il più conveniente della Capitale. Insomma, la vociante, popolana e disordinata “gran fiera magnara” descritta da Gadda nel suo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Piazza Vittorio come sinonimo di caciara verace, insomma, dove tutti si riuniscono a fare di tutto. Anche la musica, come insegna appunto l’Orchestra di Piazza Vittorio, nata nel 2002, allorché il trasloco del mercato permise a giardino e portici di respirare, se non di ritrovare subito la loro bellezza.

Tocca ora all’area verde restituire grazia e vivibilità. Un posto per tutti: con i giochi per i bambini ma anche due tavoli da ping pong per esuberanti giovani-adulti; un’area per la colonia felina; un tavolino-scacchiera per i riflessivi, uno spazio recintato per chi porta a spasso i cani. La casina liberty è stata restaurata, un’ala adibita a bagni pubblici controllati da un inserviente, un’altra, da terminare, destinata a posto di ristoro. Abbondano le panchine, ma è piacevole sedersi anche su quella, sinuosa, di travertino. La sosta può durare, perché sulla parete esterna della casina liberty sono installate prese per la ricarica di cellulari e pc. Allora, nei pomeriggi illuminati dal sole, giocano i ragazzini multilingue portati dalla mamme all’uscita di scuola, chiacchierano due ragazze alla scacchiera, passeggiano coppie di pensionati, lavora al computer uno studente. Il Fai ha inserito il Giardino di Piazza Vittorio tra i Luoghi del Cuore, il Campidoglio garantisce sorveglianza, pulizia, illuminazione. Ci riuscirà? Abituati al degrado dopo strombazzati traguardi (come nel caso vergognoso di Colle Oppio, del Giardino della Giustizia alla Romanina, due anni fa inaugurato in pompa magna dalla sindaca Raggi, o del parco lineare Monte Mario-Monte Ciocci) i romani attendono la prova dei fatti. Ma finché dura si godano la ritrovata Piazza Vittorio. 

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