Lucia Dell’Aia
Ricordo di Enrique Irazoqui

Il volto e la storia

Scomparso a 76 anni, è stato il Cristo del “Vangelo” di Pasolini. Di origini basche, attraversato da uno spirito rivoluzionario, partecipò al “simposio” pasoliniano e da Elsa Morante apprese, e poi esercitò per tutta la vita, la critica radicale dei poteri

Il non ci rivedremo mai più, come scrive Leopardi nello Zibaldone, non può non produrre una sensazione triste e una commozione ed è proprio quel mai più che non può essere udito senza una particolare sensazione di smarrimento. È così che una vita compiuta, giunta al suo termine, ci fa tornare in mente una serie di ricordi. Mi piace allora ripensare al mio amatissimo amico Enrique Irazoqui, da poco scomparso, con commozione e attraverso i ricordi, come se dicesse, con i versi finali di Aspasia di Leopardi: Qui neghittoso immobile giacendo, / il mar la terra e il cielo miro e sorrido.

Se dovessi eleggere una immagine capace di condensare al primo sguardo un mondo di affetti, di amicizia, di poesia e di bellezza, non indugerei nell’indicare la foto di Domenico Notarangelo (qui riprodotta, ndr) sul set del Vangelo secondo Matteo di Pasolini che ricorda una sorta di déjeneur sur l’herbe del 1964. Sento di appartenere profondamente a quel simposio, di condividerne lo spirito, i valori. Enrique mi segnalò questa foto e la mandai al caro amico Giorgio Agamben, anche lui qui ritratto, che non l’aveva mai vista e che poi scelse di inserirla nelle ultime pagine del suo libro Autoritratto nello studio. I valori di questa mensa consumata sull’erba sono quelli che ho imparato ad amare con l’amicizia intesa come condivisione di un mondo temporalmente sfasato, di dialogo fra i vivi e fra i morti nel modo in cui ne scrive Giorgio Agamben in Autoritratto nello studio: «I morti e i vivi sono compresenti, così vicini e esigenti che non è facile comprendere in che misura la presenza degli uni e degli altri sia diversa». 

La mia amicizia con Enrique è nata anche dal suo bisogno di condividere la memoria di “un altro mondo”, come amava definirlo, con chi ancora trovava vive quelle persone. Il suo viso aspro, austero, forse lontanamente memore di quella aristocrazia militare basca da cui proviene il suo cognome, è quello di chi sembra attraversato da uno spirto guerrier che rugge dall’interno. È stato l’indimenticabile volto del Cristo cinematografico di Pasolini. La passione per i volti e per le loro espressioni che caratterizzava il Pasolini regista è rimasta sempre viva anche in Enrique Irazoqui che fino alle ultime settimane di vita ha continuato a fotografare visi, anche di sconosciuti, alla ricerca di quell’umanità che amava e che voleva scoprire con occhio sempre acuto, anche per il tramite delle biografie, orali o scritte, di cui era appassionato. 

Se il volto e la sua espressione sono stati gli elementi determinanti che hanno fatto dello studente antifranchista diciannovenne di Barcellona un Cristo rivoluzionario, non meno importante per Pasolini è stata la storia che in quel viso era nascosta, la storia della ribellione ai regimi. E questa critica radicale dei poteri è rimasta viva per tutta la vita in Enrique. Lui stesso ammetteva che è stato proprio da Elsa Morante, conosciuta tramite Pasolini, che ha imparato che i fascismi non avevano solo un volto politico, quello storico, ma un volto cangiante, che lui ha appreso così a individuare anche nella volgarità e nel qualunquismo così come nel mito capitalistico del denaro.

Enorme è stata per Enrique l’importanza di quegli incontri nati attorno all’eccezionale progetto pasoliniano, in cui, fra gli altri, furono coinvolti anche Alfonso Gatto e Natalia Ginzburg. Tra tutte, per lui, la stella che brillava di più era la sua Elsa, l’amica della cui umanità, poetica e anarchica, si è nutrito e di cui ha conservato per tutta la vita, anche nei fortunosi traslochi, i libri che lei gli aveva donato con le sue dediche. Quello di Enrique è un destino che ha incrociato varie storie: quella della Roma intellettualmente fervida degli anni Sessanta, così come il sogno giovanile libertario di Parigi nei primi anni Settanta, la sua bohème, quella della canzone di Charles Aznavour nella quale amava identificarsi. 

La storia di quel volto è anche la storia di una odiata dittatura, di una fuga negli Stati Uniti con una esperienza di insegnamento della letteratura spagnola, e del rientro in Spagna dopo la caduta del regime in un paese della Costa Brava, Cadaqués (in cui aveva risieduto durante le villeggiature estive da ragazzino), secondo il suo sogno di vivere sempre in vacanza, essendo la retorica del lavoro una forma di schiavitù. Cadaqués per lui è stata l’isola del ritorno: è qui che con l’amatissima moglie Ans ha incontrato tante persone al Bar Maritim, dove chi oggi andasse troverebbe una stella sul pavimento che lo ricorda. 

Molte sono state le passioni di Enrique, dagli amati Mozart e Bach ad Antonio Machado, dal gioco degli scacchi a Georges Brassens e al Romancero, di cui sono stata felice di avergli fatto dono di una edizione un anno fa, nel nostro ultimo incontro a Matera, che ci ha resi felicissimi. Da Enrique ho imparato che cosa è la generosità e la leggerezza: qualche giorno prima della sua scomparsa, in un dialogo telefonico, gli ho parlato con ironia di corpi come accidenti e di metempsicosi. Mi ha detto che ero riuscita a farlo ridere: se fra qualche anno – ha aggiunto – vedrai in un caffè vicino al mare un ragazzino che colpirà il tuo sguardo, quello sarò io, puer aeternus

Facebooktwitterlinkedin