Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Bergamo o cara

La città martirizzata dal coronavirus è al terzo posto nella classifica dei Luoghi del cuore a cui il Fai dedica la sua attenzione. E di cose belle e gloriose ce ne sono molte nel luogo natale di Donizetti e di Bartolomeo Colleoni che di tanta arte si volle circondare

Ha già ottenuto 7222 voti ed è al terzo posto della sfida per i Luoghi del Cuore, la gara lanciata ogni anno dal Fai con la quale ciascuno di noi può sostenere il posto che più ama e che il Fondo Ambiente Italiano aiuterà finanziariamente per la sua conservazione. È Bergamo, la città martirizzata dal coronavirus, uno sfregio alla sua bellezza, a una storia gloriosa, a un passato avventuroso che si salda alla vivacità del presente. Un comune tarpato sì dall’epidemia, ma che brama di tornare protagonista. E chissà quanti – finita la Grande Paura – vorranno visitarla, omaggio a uno spicchio d’Italia che deve andare a testa alta.

Allora eccola Bergamo, in un tour che bisogna al più presto reificare. Ecco soprattutto la parte vecchia, su un colle di quasi trecento metri che una funivia o una serie di scalini – gli “scorlazzini” – collegano alla parte bassa, quella più moderna, in parte progettata da Marcello Piacentini. Medioevo e Rinascimento, invece, lassù, sulla cittadella, in greco Pergamon, e dunque forse all’origine del nome. Con scorci di edifici preziosi, cesellati, come un prezioso soprammobile d’oreficeria. Un tessuto urbano compattato dal primo vanto, la cinta intatta di mura diventata nel 2017 Patrimonio Unesco. Si deve ai veneziani, che nel XVI secolo volevano difendere il territorio da incursioni nemiche, perché si trovava sulla Via del Pepe, attraverso cui la Serenissima esportava spezie nel centro Europa. Così, il borgo antico sembra una cuspide, rinserrata dalla fortificazione e allo stesso tempo circondata dai boschi, perché Bergamo Alta è all’interno di un’area protetta, il Parco dei Colli. Le vie strette sono vene nel corpo della città. Che ebbe un cardo e un decumano appena diventata municipio romano, nel 49 avanti Cristo. Ma che poi fu dei Longobardi, dei Franchi, nel 1098 libero Comune della Lega Lombarda che affrontò Federico Barbarossa. E ancora assoggettata ai Visconti di Milano, ai dogi di Venezia, alla Repubblica Cisalpina sotto il segno di Napoleone, agli Austriaci che ne avviarono la prima industrializzazione. Infine, il Regno d’Italia e tanti patrioti, anche al seguito di Garibaldi. Sicché la chiamarono Città dei Mille.

Si sente l’eco dei secoli nelle stradette, forse insieme alle note dei melodrammi di Gaetano Donizetti, che qui nacque. Quasi trasudano, le ere passate e i loro protagonisti, dai muri degli edifici. Quando, ogni sera alle 22, dal Campanone (la Torre Civica) risuonano cento colpi, ci si ricorda che è l’ora in cui si chiudevano le porte delle mura “veneziane”. Nella Piazza Vecchia si sente lo zampillio della Fontana Contarini ed è un gioco di ombre e luci il Palazzo della Ragione, la più antica sede di libero comune, sorta nel 1183, l’anno della pace di Costanza: scuri e possenti i portici a sesto acuto del piano terra, lievi e chiare di marmo le finestre trilobate al primo piano, mentre dal tetto la sequenza dei merli a nido di rondine proietta ombre sul selciato a mattoncini rossi. Restano accese le luci del Caffè del Tasso, accanto alla statua del poeta nato nella Val Brembana, memore degli illustri ospiti, a partire dal cremonese Ugo Tognazzi. Poi ci si può avviare sulla Corsarola, come chiamano la via Colleoni. E finire dritti dritti nel luogo più affascinante ed enigmatico, lo slargo sul quale affaccia la Cappella Colleoni addossata alla basilica di Santa Maria Maggiore.

Un complesso avvinghiato come il paguro e l’attinia, in un’osmosi mutualistica di terraferma. Infatti, per farsi edificare il sepolcro, Bartolomeo Colleoni fece abbattere la sacrestia della chiesa. Era il 1472, e nella vulgata bergamasca si avanza anche la suggestione che il condottiero avesse preso quello spazio manu militari. Documenti sconfessano la teoria, però dell’intraprendenza del braccio destro di Carmagnola, al servizio di Venezia, la dice lunga la decisione di costruirsi cotanta tomba prima della dipartita: «Sepulcrum sibi vivus extruxsit pro patriae munificentia et imperii maiestate», testimonia il suo biografo. A Giovanni Antonio Amadeo, l’architetto, Colleoni suggerì di realizzare un’opera insieme raffinata e volitiva: così l’edificio sfoggia uno scatto verso l’alto, che va oltre la cupola poggiata sul tamburo ottagonale culminando nella cuspide della lanterna. E la facciata a tarsie di marmi policromi è una sequenza di sculture e di elementi architettonici ricchi di simboli. Nel rosone è inscritta una ruota, allegoria del Sole, invictus quanto aspirava essere Colleoni; le colonne sulle finestre paiono canne d’organo e alludono ai fusti di cannone; due medaglioni raffigurano Cesare e Traiano, esemplari per l’uomo d’arme. All’interno, due sepolcri – cesellati di figure mitologiche, di putti, e raccordati da tre statue – sono sovrastati dal monumento equestre in legno del comandante: tutto di profilo, posa impettita, impugna dritta un’asta, e l’unico scarto è quello del muso del cavallo. Una teofania sullo sfondo azzurro, in un monumento cristiano e pagano insieme. Ma che vibra anche di affetti: sopra il sepolcro più grande, di Bartolomeo, quello della adorata figlia Medea, morta a quattordici anni e seppellita con il suo cardellino. E replicato più volte lo stemma, aulico e prosaico al tempo stesso: perché insieme ai gigli d’oro dei d’Angiò e alle fasce di Borgogna, esibisce tre testicoli, dal nome Colione degli antenati, del quale Bartolomeo fece una sorta di minaccioso slogan quando assaltava le file nemiche al grido di “Colia, colia, colia”.

Affreschi del Tiepolo alla base della cupola e nelle vele e un altare con colonne tortili uniscono allo stile medievale quelli del Rinascimento lombardo e del Barocco. Stessa la commistione in Santa Maria Maggiore: romanico del XII secolo l’esterno, secentesco l’interno, a parte la tomba di Gaetano Donizetti. Particolarissimo l’aspetto: non una facciata, ma a ogni lato un ingresso, a sottolineare la pianta a croce greca. Un protiro e due leoni rossi ai lati della porta in quello accanto alla Cappella Colleoni; una coppia di leoni bianchi presso un altro andito. E tre absidi, in un gioco di prospettive che inganna e stupisce il visitatore. Stregato anche dal racconto del mistero che ha avvolto per cinque secoli la salma del capitano di ventura. Il quale morì tre anni dopo la realizzazione del mausoleo, nel 1475. Ma che, si disse a lungo, non dimorò nelle spoglie in quel sarcofago istoriato che si era fatto realizzare ancora in vita, perché dopo varie empiriche ispezioni era risultato vuoto. Si avanzò perfino l’ipotesi che ci fosse lo zampino del cardinale Carlo Borromeo, che avrebbe fatto spostare la salma nella basilica attigua. E non si seppe rispondere al re Vittorio Emanuele III che, visitando la cappella nel 1913, chiese in quale delle due arche sovrapposte fosse sepolto il condottiero. Negli anni 50 si rinvenne uno scheletro sotto il pavimento di Santa Maria Maggiore che però si rivelò essere di un cavaliere rimasto per sempre sconosciuto. Soltanto una nuova ispezione nel ’69 permise di trovare lo scheletro autentico: nel sarcofago più grande, ma sotto una soletta di calce alla base della tomba, che venne individuata con un’indagine geofisica e rotta con un bastone. Il luogotenente del Carmagnola era adagiato in una cassa di legno di pero, la spada sotto la schiena e l’iscrizione su una lastra di piombo: “Bartolomeo Colleoni, nobile bergamense per privilegio dello d’Angiò, invitto condottiero generale della Illustrissima Signoria Veneta. Visse 75 anni. Comandò per 24. Morì il 3 novembre anno 475 sopra il mille”. Tutto esatto, tranne l’età, 80 anni. Perché Bartolomeo aveva spostato in avanti la nascita di un lustro, al 1400, per farla coincidere con il grande Giubileo. Una sorta di investitura divina.

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