Sergio Zoppi      
Riflessioni sulle politiche per il Mezzogiorno

Il fattore umano

La lezione di Giulio Pastore che considerava essenziale per lo sviluppo del Sud Italia agire sull’insieme sociale della popolazione meridionale. Un’utopia che non perde forza, oggi più che mai: cambiare il passato pensando a domani

All’inizio del mese di settembre 1959, Giulio Pastore, per la seconda volta come presidente del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, partecipa a Bari al tradizionale appuntamento meridionalistico della Fiera del Levante. Si è ormai impadronito della complessa intelaiatura dell’intervento speciale, straordinario. Ha la consapevolezza di cosa non può osare, anche se lo vorrebbe, e quanto avverta invece il dovere di comunicare, con l’impegno a realizzare quanto enunciato. Il bilancio del Mezzogiorno, pur tra le ombre che ancora permangono (rimane in primo luogo la piaga dell’emigrazione) si presenta confortante con l’industrializzazione che ha preso pieno campo affiancandosi alle originarie competenze della Cassa: l’acqua, la bonifica e la viabilità. Ora importante, prioritario (rimarrà un auspicio) è realizzare il coordinamento dal quale scaturirà l’effetto propulsivo poiché agli interventi pubblici ordinari spettanti al Sud per il territorio e per la popolazione – che non debbono deflettere – si sommeranno quelli straordinari, aggiuntivi della Cassa. Se questo indispensabile obiettivo viene conseguito, aggiunge Pastore, avrà successo quella politica sociale che, ai suoi occhi, costituisce un «momento essenziale nella […] visione generale del problema meridionale». Una politica sociale che trova «nelle politiche del fattore umano una particolarissima peculiarità dell’azione meridionalistica, sì da farla assurgere a fase determinante, come è stato fatto per le infrastrutture prima e per l’industrializzazione poi. […] La verità è che il Ministro vorrebbe che oggi si guardasse al fattore umano con lo stesso impegnativo criterio con cui si è guardato sin qui alle infrastrutture e alla industrializzazione. Dobbiamo considerare il tempo delle infrastrutture, quello della industrializzazione e quello della formazione del fattore umano, come tempi interdipendenti». Mai Pastore era stato tanto esplicito e forse, pur ritornando costantemente negli anni sullo stesso tema, mai così perentorio.

Il ministro sa bene che c’è ancora necessità di dighe, acquedotti, bonifiche, strade, elettrodotti e ora di imprese industriali. Ma che tutti questi interventi, che solo a partire dal 1950, dopo novant’anni dall’unità d’Italia, sono stati realizzati o programmati, risulterebbero circoscritti e asfittici se non potessero contare – il «momento essenziale» – su una società ben articolata e su una classe dirigente dotata di competenze, secondo l’auspicio degasperiano formulato all’inizio del decennio. Pastore parla di tempi interdipendenti, tra infrastrutture, industrializzazione e fattore umano, ovvero di tempi collegati, concatenati, congiunti. Nessuno in quegli anni, al Governo, solleva con pari forza e intensità quel tema. Nel Paese, e al Sud in particolare, giustamente si continua a evidenziare la questione della definitiva battaglia da vincere contro l’analfabetismo, si comincia a sottolineare l’anomalia di quelle regioni meridionali che sono ancora prive di università degli studi statali. Pastore allarga l’analisi e usa l’espressione «tempi interdipendenti» che sono sì distinti ma espressione di una politica unitaria di sviluppo, avendo preso coscienza dei problemi posti da una nuova fase storica, nella consapevolezza, che il ministro tocca con mano nei frequenti spostamenti nel Sud che ai grandi progressi conseguiti dall’economia ovunque nel mondo, nel Mezzogiorno «non corrispondono altrettanti progressi della società locale sul piano dell’adeguamento spirituale, culturale e tecnico alle trasformazioni strutturali avvenute».

Una società che è rimasta quasi immobile per secoli e che ora è scossa, se non violentata, da interventi inimmaginabili un decennio prima, presenta una «frattura», «quel distacco tra l’uomo e l’ambiente che sembra caratterizzare l’atteggiamento delle popolazioni meridionali». Una società meridionale quindi che non si è impadronita, per poi guidarli, dei meccanismi di sviluppo messi in atto. Occorrono, prosegue Pastore (nella foto), forze lavoro specializzate e non solo tecnicamente. Bisogna rafforzare la scuola e realizzare un insieme d’interventi miranti all’«avanzamento di tutta la personalità umana» tenendo conto che l’ambiente meridionale è caratterizzato da una molteplicità di situazioni locali, l’una diversa dall’altra; necessita agire per consentire ai meridionali l’ingresso in strutture produttive moderne non in qualità di soggetti passivi ma da attori dei processi di sviluppo. Da qui la necessità di iniziare «un processo di lievitazione del comportamento sociale della popolazione meridionale».

L’ispiratore di Pastore, Mario Romani, nel maggio 1960, parlando all’università Cattolica di Milano sul Mezzogiorno e sui problemi del suo sviluppo, riprende e rilancia l’argomento affermando: «Siamo arrivati ad accorgerci che quello che veramente conta […] è l’elemento umano, individuo e gruppo, che deve essere affrontato con tutti gli strumenti che il progresso delle conoscenze scientifiche e la tecnica culturale e sociale mettono a nostra disposizione». Per superare il dualismo occorre dunque una società nuova. Un’impresa titanica non capita o se capita velatamente osteggiata. Pastore sa di non poter caricare la Cassa di nuovi compiti, appesantita com’è dalle incombenze che nel corso del primo decennio di vita Parlamento e Governo hanno ritenuto di aggiungere a quelle, pesantissime, iniziali, gravandola di responsabilità che ne frenano la corsa e facilitano l’incrinatura del fronte delle competenze, dell’orgoglio professionale, dell’adesione alle regole del corretto agire amministrativo che l’hanno additata agli elogi nazionali e all’ammirazione dell’Occidente.

Pastore immagina ora una costellazione di agili strumenti che possano attingere alle risorse finanziarie della Cassa e siano in grado di operare con larga autonomia e speditezza di manovra. Riesce a superare una pluralità di ostacoli e realizza i suoi propositi, avvalendosi, per la progettazione, di Massimo Annesi, giurista creativo. Nascono il Formez per la formazione e la specializzazione degli imprenditori privati e dei dirigenti privati e pubblici, lo Iasm per l’assistenza tecnica sia alle imprese che agli enti locali, la Finam, l’Insud, la Fime, finanziarie per assecondare la crescita dell’agricoltura e dell’industria, i Ciapi, centri interaziendali per la preparazione specialistica della manodopera e, qualche anno dopo, i Centri di servizio culturale per portare, in decine e decine di comuni avanzate biblioteche, costruendo luoghi di aggregazione civica.

Una rete che, almeno in parte, risponderà positivamente alle attese di Pastore. L’aspetto critico nasce dalla stesso tipo di forza dello strumento al quale questi nuovi enti, chiamati collegati (alla Cassa) sono incardinati. Il prestigio e il potere della Cassa sono legati al tempo concessole e alla capacità di guidarla. La durata della Cassa viene sì prorogata ma a partire dal 1969, scomparso prematuramente Pastore, quel meccanismo unico, originale, avanzato non è più governato con l’energia, la lucidità e la lungimiranza (che voleva anche significare la difesa dell’autonomia professionale) che avevano contrassegnato l’operare dell’ex sindacalista. Strumento forte e al tempo stesso fragile la Cassa, a motivo, ripeto, della sua precarietà e delle possibilità di manometterla. Di gran lunga più gracili gli enti collegati concepiti per un intervento integrato, finalizzato, concordato tra indirizzo politico e struttura operativa, la Cassa appunto. Complessivamente, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, prevalse l’interesse ad attingere comunque al flusso della spesa pubblica, sempre meno collegata alla misurazione dei risultati attesi e ottenuti.

Gli investimenti sul fattore umano ebbero effetti positivi ma di gran lunga inferiori alle necessità, non assecondati da leggi che affrontarono, solo in parte l’indispensabile riqualificazione degli enti locali esaltando la figura del sindaco ma indebolendo il ruolo del consiglio comunale e quasi azzerando i controlli e relegando ai margini quel tanto di burocrazia tecnica e amministrativa che ancora sopravviveva. L’intervento pubblico straordinario che si era mostrato incisivamente operativo a partire dal 1950, grazie alla convergenza e alla collaborazione tra ottime leggi, capaci e onesti amministratori, sperimentazione e messa in opera di uno strumento del tutto nuovo nel panorama delle pubbliche amministrazioni nazionali, finanziamenti certi e agili procedure, con una guida politica due volte decennale o quasi (Pietro Campilli – nella foto con la figlia, ndr – e Pastore), dopo venticinque anni avrebbe avuto bisogno di una nuova progettazione.

Non so se Pastore, che aveva le idee chiare, avrebbe trovato le condizioni e avuta la forza per realizzarla. Il 1975 possiamo assumerlo come l’anno di una possibile (e mancata) svolta: un anno dopo, non a caso, verrà sostituito Gabriele Pescatore alla guida della Cassa. Il Mezzogiorno era uscito dalla marginalità per entrare nel nostro tempo. Tutto attraverso azioni esterne. Senza una reale, consapevole partecipazione dei meridionali che risultarono soggiogati da una struttura romana che realizzava perfino i cimiteri accanto agli asili nido. Occorreva guidare con mano sicura l’intervento straordinario (altrimenti sarebbe diventato preda – come avvenne – dell’affamata partitocrazia) e, impresa mai osata, renderlo strumento di una società civile che rinforzasse i suoi germogli. Un decennio di spesa che assumesse le priorità di Pastore che ho cercato di riassumere, dando successivamente spazio, a rinnovate energie locali.

Oggi, a distanza di tanto tempo, sono giunto a ritenere che andasse sperimentato il governo della Cassa e degli enti collegati non attraverso un ministro senza portafoglio ma affidando la guida dell’intervento, per dieci anni, a una personalità con ampi poteri (mi sovviene il tentativo di Giolitti nel 1921) in grado di scegliere gli amministratori degli enti e di rinnovarli, rispondendo direttamente al presidente del Consiglio, chiamato, come detta la Costituzione, a dirigere, da responsabile, la politica generale del Governo, mantenendo l’unità dell’istituzione politica e amministrativa, a provvedere dunque anche al coordinamento tra spesa ordinaria e straordinaria. Uno strappo, necessario, all’ordinamento giuridico, riunendo nella stessa persona i poteri del ministro per il Mezzogiorno e quelli del presidente della Cassa. Con la finalità anche di rafforzare le attitudini dell’amministrazione speciale e di quelle regionali e locali a risolvere i problemi e, al tempo stesso, a erigersi a garanzia dei cittadini; sufficientemente autonome e quindi in grado, grazie a strutture amministrative adeguate, di preservare e accrescere le proprie competenze e di assumere le responsabilità delle decisioni nel quadro delle garanzie assicurate dalla Stato di diritto, amministrazioni che dalla forza acquisita avrebbero trovato la via per aprirsi a una sempre più larga e profonda partecipazione degli amministrati, ovvero dei cittadini, alle loro stesse attività

Penso che sarebbe risultato un modo, forse il solo, per contenere l’espandersi della criminalità organizzata. Con l’acquisizione di autorevolezza da parte delle istituzioni politiche e delle strutture amministrative pubbliche, innalzando il livello di competitività e la coesione sociale del Paese, cancellando la debolezza dello Stato e sconfiggendo le resistenze corporative di tanti attori collettivi che sono sempre stati la zavorra del Sud. Al termine del decennio le competenze tecniche della Cassa avrebbero potuto essere preservate a servizio dell’intero Paese utilizzandole, in primo luogo, per la manutenzione di dighe e acquedotti; il rimanente personale a rafforzare gli uffici di regioni e ministeri. Il Mezzogiorno avrebbe visto, attraverso programmi di ampio respiro, incentrati sulle risorse umane e dotati di mezzi finanziari consistenti, crescere e affermarsi una classe dirigente degna del nome; le stesse regioni avrebbero trovato minori difficoltà nel realizzare le loro finalità sapendo di poter contare su un tessuto civile solido e articolato. Il Mezzogiorno sarebbe stato anche di esempio per l’intero Paese, sviluppando la cultura della cooperazione. Sogni, naturalmente, i miei, neppure ben definiti, come del resto si presentano i sogni.

Una affermazione, a questo punto, mi sento di avanzare: Pastore aveva capito qual era la strada da prendere. Soffriva al pensiero di non avere né la forza e tanto meno il tempo per percorrerla. Continuo per un minuto la mia utopia: ho in mente l’uomo giusto per assumere quella tremenda responsabilità decennale, Manlio Rossi-Doria (nella foto sopra), nel 1975 anziano ma ancora carico di energie, economista agrario, educatore, aperto al mercato e nemico dei monopoli, autorevole e saggio politico, impregnato di quei valori universali che gli derivavano anche dall’essere stato allievo e collaboratore di Umberto Zanotti-Bianco. Naturalmente un sogno, ma chissà che i sogni non aiutino a cambiare il presente.

Nell’immagine, “Finestra” di Renato Guttuso

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