Nicola Fano
Teatro della festa/1

Conoscersi (a teatro)

Prima parte di un breve viaggio nel teatro popolare. Ad Anghiari, da ventiquattro anni, con “Tovaglia a quadri” la comunità si racconta e si riconosce in uno spettacolo che mette in scena le illusioni e la realtà del borgo. In un rito di conoscenza reciproca che ridà senso al teatro stesso

In questo ferragosto elettorale (ma sono anni, oramai, che il nostro sfortunato Paese è in perenne campagna elettorale), abbiamo deciso, per sondare l’umore profondo delle persone, di andare a teatro. Ma non nel circuito del teatro, per così dire, ufficiale fatto di festival vacanzieri e turistici (ce n’è tanti, per fortuna, e la definizione non è di qualità ma semplicemente di merito) bensì in quello del teatro necessario: quello che le comunità utilizzano per raccontarsi, per darsi un’identità, per “mettersi in scena”. E abbiamo scoperto qualche significativa meraviglia. È “teatro popolare”: tecnicamente, nel linguaggio accademico si chiama “Teatro della festa”, a richiamare la memoria delle feste di maggio medioevale dal quale deriva,  vale a dire le feste primaverili nelle quali i contadini mettevano in scena le proprie storie e le proprie paure in vista del raccolto e bastonavano sonoramente diavoli con le facce da Arlecchino e Pulcinella: è da lì che nasce il teatro moderno, dalla Commedia dell’arte in giù. Noi abbiamo cercato di riallacciare questi fili girando fra Toscana e Umbria assistendo a una festa teatrale che ad Anghiari conta già ventiquattro anni di storia e a una a Calvi dell’Umbria, viceversa al suo primo anno di vita (di cui parleremo nella seconda puntata di questo reportage, clicca qui per leggerla).

Cominciamo, dunque, da Anghiari, dove ogni anno la gente del borgo si dà appuntamento in una piazzetta appollaiata tra le mura possenti e la valle verso Sansepolcro resa celebre dalla eponima Battaglia. Intendiamoci, siamo sotto l’ala protettiva di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci (ad Anghiari, un piccolo e grazioso museo ne festeggia il dipinto perduto con ottimi sussidi multimediali). E già questo la dice lunga sulla strada a ritroso fatta dal nostro disgraziato Paese dove anche nel Cinquecento (con Piero e Leonardo già morti) si faceva il tifo pro o contro, come oggi e come sempre, salvo che l’oggetto della contesa non erano la Roma e la Lazio o Salvini e Carola, ma era se l’arte dovesse rappresentare la realtà (scuola Piero della Francesca) o imitarla (tendenza Leonardo da Vinci, mediata da Vasari). Insomma, ad Anghiari bisogna andarci con circospezione perché non è un luogo come tutti gli altri ma la culla di sensibilità e saperi con stratificazioni secolari (fate una gita nel magnifico teatrino ottocentesco del borgo e capirete meglio la faccenda…).

Qui, dunque, ogni estate da ventiquattro anno intorno a ferragosto si dà Tovaglia a Quadri, vale a dire, come spiegano i promotori/autori/registi Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, una «cena toscana dentro le mura con una storia da raccontare». Ogni anno, per lunghi mesi la comunità del borgo raccoglie i materiali da raccontare, appunto, che i due animatori poi sistemano, drammatizzano e teatralizzano: dietro a un pretesto narrativo (questa volta, con il titolo Viadotta, era l’euforia commerciale di un promotore turistico che vuole imbastire un tour fatto di falsi transumanti e veri profittatori della cosiddetta “moda del food”) ci sono questioni anche spinose della vita quotidiana di chi racconta e si racconta. Sempre questa volta, per esempio, sullo sfondo della ricostruzione turistica della millenaria tradizione della transumanza (il nomadismo delle mandrie o delle greggi che salgono e scendono colli e montagne in cerca della migliori condizione di pascolo), ci sono una serie di faccende assai scottanti: la transumanza, tanto per incominciare, ha non solo simbolicamente molto a che spartire con le migrazioni. E questo tema, ovviamente, divide i cittadini del borgo di Anghiari come quelli di tutti gli angoli di Italia; specie se la contesa viene quotidianamente sfruttata a fini elettorali da politici/tifosi senza scrupoli né progetti né vergogna. Sì, si parla anche di Salvini, dell’Inno di Mameli intonato dalle cubiste della Lega e dalle migrazioni in Russia degli emissari in affari del segretario di un partito che ha sottratto alle casse dello Stato italiano (cioè dalle tasche di ciascuno di noi) la modica cifra di 49 milioni di euro. E se ne parla perché è della vita di ogni giorno che si occupa il teatro popolare: con gli scontri, le liti, le battute che si inseguono da una finestra all’altra, dalla strada a un balcone (ché questo è il palcoscenico di Tovaglia a quadri). Ma, per fortuna, l’Italia non è solo preda dell’incubo-Salvini, sicché anche temi più importanti vengono alla ribalta. Per esempio, lo stato dei tratturi antichi o, per meglio dire, l’abbandono nel quale versa le memoria storica contadina (e non solo) intorno ad Anghiari (e se è così in un luogo per decenni gestito con tanta cura, figuriamoci altrove…); oppure la salute generale della terra, imbottita di plastica e di scarti di ogni genere; o ancora la propensione della società del benessere obeso a considerare gli animali veri e propri esseri umani (provate a fare l’animalista integralista con chi da millenni convive e rispetta davvero gli animali, ossia i contadini o i pastori e vedrete che badilate vi tireranno…).

Insomma, c’è molta, molta realtà in questo genere di rappresentazioni; molta vera politica, intesa come esperienza di vita sociale vissuta. Ma, ciò che rende unica l’esperienza teatrale di Tovaglia a quadri, è la partecipazione del pubblico. S’è detto che gli spettatori (fino a duecento per sera, per dieci sere: si replica fino al 19 agosto) sono anche commensali, ovvero mangiano e commentano in diretta l’azione e i racconti recitati tra una portata e l’altra. E proprio questo “spettacolo nello spettacolo” è l’ulteriore motivo di interesse di Tovaglia a quadri. Perché una accanto all’altra si trovano persone anche con sensibilità e storie diversissime fra loro: la convivialità impone loro di scambiare pareri, suggestioni o informazioni. Sennonché può capitare di star seduti (e sentirne le reazioni) accanto a qualcuno che è bersaglio diretto dell’ironia o della satira esposta nello spettacolo. E, anche in questo caso, la sensazione precipua è che il teatro unisca, anziché ulteriormente dividere. A mia esperienza, per esempio, ho visto un politico locale d’estrazione leghista ridere alle battute sul Papeete e poi lamentare, credo sinceramente, che non è buona cosa sfottere l’Inno nazionale. Magari questi distinguo non porteranno a ripensamenti politici o di potere, ma ecco che il teatro, così, recupera la sua funzione millenaria: favorire la conoscenza di sé e degli altri. Come dire? Da decenni vado in platea tutte le sere e spesso, di recente, mi pare di dover considerare che il cerimoniale scenico abbia perso le sue ragioni più profonde: ebbene, qui ad Anghiari ho finalmente trovato qualcosa, invece, che ancora conserva intatto il valore di un rito che dà senso alla comunità degli uomini da sempre. Una bella soddisfazione.

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